Ascoltata qui non può non metterti un brivido. Ascoltata qui, tra i lunghi corridoi dove gli orologi sono tutti fermi, non può non farti sobbalzare quella nota che Chopin ripete all’infinito in un suo Preludio . Carcere di Bollate. Alle porte di Milano. Riccardo Muti è seduto al pianoforte, lo stesso che i ragazzi, che qui sono chiamati a saldare il loro debito con la giustizia, suonano durante le loro lezioni di musica e i loro spettacoli. Il direttore d’orchestra ha raccolto l’invito di uno di loro. Willi, che oggi è tornato libero, qualche tempo fa aveva ascoltato un’incisione del maestro. Si è fatto coraggio, ha preso carta e penna e ha scritto a Muti, invitandolo a Bollate. Pochi giorni fa la risposta. Il sì del direttore d’orchestra che ieri, di ritorno da Parigi e prima di ripartire per Chicago – «Anche in America farò musica nei penitenziari» annuncia – ha varcato i cancelli dell’istituto di pena. «Non ci ho pensato due volte a venire qui da voi» racconta Muti, emozionato di fronte ai ragazzi che appena lo vedono entrare nel capannone che hanno adibito a teatro si alzano in piedi e lo acclamano al grido di «Sei grande Riccardo ». Muti si presenta. «Saprete chi sono leggendo i giornali. Ma i giornali mi dipingono per quello che non sono: burbero e sempre con la faccia scura». E lo dimostra sorridendo, fissando i ragazzi dritto negli occhi mentre racconta che la musica «può essere compresa da tutti perché non esprime concetti, ma sentimenti che parlano al cuore ». E quando un tecnico abbassa le luci per creare l’atmosfera, si interrompe: «Riaccendetele voglio vedere i volti di tutti». Il maestro invita i ragazzi ad abbandonarsi alla musica «dentro queste mura ma anche fuori di qui perché essa vi aiuterà a essere migliori, a non sentirvi soli». A sperare. E glielo spiega. Raccontando la vita travagliata e infelice di Schumann e di Chopin. Ma anche di Schubert, «il più infelice di tutti» rivela il maestro. Suona un Preludio , un Improvviso, un Valzer . Poi si ferma. «Vi domanderete perché vi parlo solo di persone infelici. Perché tutti i più grandi hanno sofferto, ma hanno saputo, attraverso la musica, trasformare questo dolore in amore». Muti suona ancora Schumann. «Ho trovato una grande disperazione in questo pezzo, ma anche la capacità di allungare la mano e chiedere aiuto» lo incalza una ragazza. Muti le fa una carezza: «Hai colto perfettamente il senso di questo autore». Poi torna al pianoforte. Sviscera le partiture che ha davanti, spiega cos’è la melodia e cosa l’armonia. Osa arrivare fino a Schoenberg spiegando la rivoluzione della dodecafonia. Poi spiazza tutti. «Ascoltate ancora Schubert. Sentite quanta tenerezza. Quella che manca al mondo di oggi, ruvido, sempre pronto a giudicare. Tutti sbagliano, ma tutti possono rialzarsi ci dice il musicista austriaco con le sue note». E di fronte a qualche faccia perplessa insiste: «Abbandonatevi alla musica». E si lascia andare a una confidenza. «Sapete come ho scoperto di amare la musica? – chiede –. Da ragazzino ascoltando la banda del mio paese, Molfetta». Gli occhi di Giuseppe si illuminano: «Anch’io sono di Molfetta ». Muti gli stringe la mano, poi torna al piano e si mette a suonare La santa allegrezza , «una canzone natalizia che si canta ancora oggi in Puglia». Giuseppe intona il ritornello con il maestro che gli promette: «Tornerò presto, in estate. E magari vi racconterò la mia vita». I cinquanta ragazzi, che per due ore lo hanno seguito concentrati, lo prendono in parola. Gli si fanno attorno. Vogliono un autografo. Una foto con lui. E a chi gli chiede se tornerà anche alla Scala risponde con una battuta: «Oggi sono Muti, ma anche Sordi. Sono qui solo per questi meravigliosi ragazzi e non voglio adombrare questa serata con altre cose». Tommaso gli sussurra: «Lei ha bisogno della musica per vivere, ma la musica ha bisogno di lei perché tutti la amino». Diego lo ringrazia «per la tenerezza e l’amore che ci ha portato stasera» gli dice Davide. Muti stringe le mani di tutti. «Sono io che devo ringraziarvi perché facendo musica posso dare qualcosa alla gente, vuol dire che la mia professione ha davvero un senso».