Il concerto. Muti in Giordania anche per i profughi
Riccardo Muti durante il concerto in Giordania
Ha il suo volto. Ha i suoi occhi. Ha le sue mani la Giordania. Il volto, le mani, gli occhi di questo metro e dieci di ragazzino. Chi lo sa il suo nome. “Una moneta italiana” ti dice scandendo bene le parole. Glielo deve aver insegnato il padre. Che oltre la Porta sud del sito archeologico di Jerash, «questa bella porta» dice mentre al tramonto ti indica il passaggio che porta verso il colonnato e poi al Tempio di Zeus, ha un banchetto: calamite, ventagli, cappelli di paglia per ripararsi dal sole, kefiah che ti mette in testa senza fare troppi complimenti – «questo regalo» insiste mentre i vicini di bancarella fanno partire L’italiano di Toto Cotugno a tutto volume. «Una moneta italiana» ti dice invece, inseguendoti sulle strade di polvere, quel ragazzino di sette o otto anni al massimo, allungandoti un pacchetto di cartoline avvolte nella plastica, foto di Jerash un po’ sbiadite dal sole. Lo fa con quelle mani – e guardandoti con quegli occhi un po’ sfuggenti – che sono il presente e il futuro della Giordania. Che sa di speranza. «Un paese e un popolo straordinari che siamo venuti ad onorare perché offrono rifugio e accoglienza a chi scappa dalla guerra» dice Riccardo Muti davanti al muro di pubblico in piedi sui gradoni del teatro romano di Jerash. Nord della Giordania, nazione dove il 30% della popolazione è costituito da rifugiati. Siriani, prevalentemente. A Jerash ci sono anche quindici di loro che abitano nel campo profughi dell’Acnur-Unhcr di Zaatari, a una manciata di chilometri dalla Siria, sono arrivati grazie a un permesso speciale del ministro dell’Interno. Qui, nel sito archeologico che parla anche un po’ italiano (nostri sono gli scavi al Tempio di Artemide), il maestro ha voluto portare l’edizione 2023 de “Le vie dell’amicizia” di Ravenna festival, invitato dal governo di questo paese ancora giovane – Amman, la capitale, è una città cantiere, sterminata, dove si continuano a costruire case. Il ponte di fratellanza in musica da Ravenna (venerdì il concerto nella città romagnola) è approdato nell’antica città romana distrutta dal terremoto, che chiamano la Pompei d’Oriente. E a Pompei “Le vie dell’amicizia” approdano stasera. Distrutta, Jerash, ma ancora bellissima nei suoi frammenti di templi, piazze, cardi e decumani – e anche qui, carabinieri italiani lavorano ad un progetto europeo per insegnare ai giordani la conservazione del patrimonio culturale. « Perché anche qui affondano le nostre radici. Che sono radici spirituali e culturali » non si stanca di ricordare Muti. Il Giordano scorre a pochi chilometri rendendo fertile il deserto di pietra della Giordania. La Terra Santa e Gerusalemme te le sei lasciate alle spalle atterrando ad Amman su un volo con una carovana di musicisti (duecento tra ragazzi dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini e voci del coro Cremona Antiqua di Antonio Greco) partita da Ravenna e approdata domenica (ancora una volta, dici guardando l’elenco delle ventisette tappe de “Le vie dell’amicizia”) in Medio Oriente. Israele e Palestina perennemente inquieti, da una parte. Dall’altra la Siria, con le ferite della guerra e del terremoto che (ormai) in troppi hanno dimenticato. Ferite che, dal 1997, quando fece rotta verso la Sarajevo in ginocchio per il conflitto dei Balcani, Muti prova a medicare attraverso la musica. Nel Teatro romano di Jerash, Gluck con il secondo atto di Orfeo ed Euridice – e il racconto di Orfeo (che è il controtenore Filippo Mineccia) che riporta in vita la sposa non può non farti pensare alla forza dell’amore che, forse, potrebbe riportare la pace dove oggi si combatte. Poi il Casta diva della Norma di Bellini affidato a Monica Conesa, «un inno del Mediterraneo» per Muti, e Il canto del destino di Brahms. Pagine che si impastano a melodie tradizionali di Giordania e Siria – le cantano Razek-François Bitar, Mirna Kassis, Zain Awad e Ady Naber, le suonano Saleh Katbeh e Elias Aboud. Il tramonto infuoca la sera di Jerash. Muti attacca l’introduzione dell’aria più celebre della Norma. E parte il canto del muezzin. Il maestro posa la bacchetta. Aspetta. Come già successo a El Djem, in Tunisia, nel 2005, in un altro Viaggio dell’amicizia. « Perché è una preghiera». Poi attacca un’altra preghiera. «Spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel» canta la sacerdotessa. «Per dire ancora una volta – spiega Muti – che la musica può insegnare un metodo per provare a risolvere i problemi del mondo. Lo vediamo, non senza commozione, facendo musica con ragazzi italiani, giordani e siriani che suonano insieme e si capiscono benissimo. La dimostrazione che c’è una parte positiva del mondo che ci dà speranza mentre un’altra parte del mondo continua a pensare a fare la guerra». La guerra che dalla Siria ha portato nel campo profughi di Zaatari 80mila persone. Vivono oltre il filo spinato e i carri armati nella cittadella costruita dal 2012, subito dopo lo scoppio della guerra, dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati: dodici distretti distribuiti su 5.3 km quadrati, ospedali (uno è affidato all’Italia in collaborazione con la Giordania), scuole, centri commerciali e la via dello shopping. Un sistema bancario interno, tante attività gestite dai rifugiati per promuovere un’economia di sostentamento del campo. Una città che produce l’energia necessaria grazie a una grande distesa di pannelli solari. «La metà della popolazione qui ha meno di 18 anni. Ogni settimana nascono tra i sessanta e i settanta bambini. Ventitremila quelli nati dal 2012» dice Adam Nord, coordinatore del campo. Saluta Riccardo Muti arrivato nel cam-po profughi attraversando la Giordania, un deserto di pietra soffocato dalla plastica – brandelli se ne vedono ovunque, attaccati alle cancellate, avvolti intorno agli alberi, fatti viaggiare dal vento. Prima di suonare a Jerash Muti ha voluto essere a Zaatari, per un concerto con musiche siriane organizzato mettendo delle sedie sull’erba sintetica del campo di calcio. Musiche intrise di malinconia che il maestro segue attento, tra un selfie e una stretta di mano con i profughi che gli si fanno attorno. A loro Muti e Ravenna festival regalano strumenti musicali: oud, la tipica chitarra mediorientale, migwiz, una specie di flauto, e violini. A Zaatari la sera si fa musica insieme. Poca televisione, ma tanti social. « Ma non so se facciamo il loro bene mostrandogli questo volto dell’Occidente» sorride Muti. Per lui e per Ravenna festival il campo è rimasto aperto in via eccezionale fino a sera per il concerto dei musicisti del campo, tanti che suonano per passione, qualcuno lo fa di mestiere insegnando a scuola o dando lezioni. Ahmad appena ha ricevuto il suo migwiz lo estrae dalla custodia e si mette a suonarlo. E parte una danza con gli ospiti del campo che si danno la mano e girano in cerchio, coinvolgendo gli italiani in questo ritmo mediorientale. Uomini da una parte, donne dall’altra perché siamo in un paese dove oltre il 90% degli 11 milioni di abitanti è musulmano, i cristiani sono l’1.4%. «Però con le ragazze ci scriviamo tramite social» racconta Akram, vent’anni, che studia ingegneria elettronica. Per molti il futuro è incerto. Vivono da undici anni in un limbo. Anche se escono per studiare e lavorare. Il governo giordano concede permessi di lavoro a seconda delle esigenze del mercato. Permessi temporanei che durano al massimo sei mesi. Attualmente ce ne sono 4mila. Tagriz sogna la Germania. Ha 42 anni e un figlio, Baatol, di 16 che segue corsi di fotografia. Firas ha 23 anni, è di Homs. Muti ha regalato un oud al padre, Mahmood, 62 anni “il maestro” del campo. Che tutti conoscono e stimano. «La vita è dura. Si lavora per piccoli periodi» racconta Firas. Sorride il suo amico Mohammed, 24 anni di Dar’a. Lui studia musica. Suona (benissimo) il violino. Mentre suona lo riprende con il cellulare Quais, arrivato anche lui da Dar’a nel 2015. Si muove su una carrozzina per un problema genetico. «Mi piace la musica, specialmente quella inglese. Il mio sogno? Viaggiare. E lavorare come programmatore di computer». Sogni. Che servono a coltivare una speranza. Quella della Giordania. Quella della Siria. E, forse, del mondo. Una speranza cha oggi ha il volto, gli occhi, le mani piagate dalla malattia di Quais.