Agorà

Reportage. Muti a Teheran, il dialogo in musica

Pierachille Dolfini sabato 8 luglio 2017

Riccardo Muti dirige i musicisti iraniani dell’Orchestra sinfonica di Teheran e quelli italiani dell’Orchestra giovanile Cherubini

Le ferite, quelle alle finestre del Parlamento o ai muri del mausoleo dell’ayathollah Khomeyni, si sono già cicatrizzate. Sono bastati vetri e calce. Quelle ancora aperte, invece, sono le ferite dell’anima. Ci vorrà il tempo. Lo capisci dagli occhi degli iraniani che quando vedono che al collo hai il pass con la foto di Riccardo Muti ti salutano con un «Ciao». Ti vengono incontro. «Qui per concerto?». Cercano un dialogo. Poche le parole di italiano che masticano, ma con il loro inglese semplice unito a una gestualità delle mani che inaspettatamente un po’ ci imparenta, raccontano lo sconcerto per il primo attacco del Daesh nel Paese. «Non era mai successo. Ci siamo sentiti vulnerabili».

Era il 7 giugno quando il Daesh entrava in azione nel cuore di Teheran: 12 morti e 35 feriti. «Ma anche allora non ho avuto la minima esitazione a venire qui per fare musica con ragazzi iraniani e italiani uniti nel nome di Giuseppe Verdi, un autore che parla a noi di noi. Abbiamo messo da parte tutti i se, i ma, i come e abbiamo detto: Andiamo e facciamo », racconta Riccardo Muti. Si sono da poco spente note e applausi nella Vahdat hall di Teheran e nel giardino della fondazione Roudaki in molti vogliono farsi una foto con Muti che qui considerano «il Messi della musica ». Il direttore d’orchestra è volato in Iran per un’altra tappa de “Le vie dell’amicizia”. E anche questa volta la scommessa di Ravenna festival è vinta. Ma non era così scontato. L’edizione 2017 del progetto partito nel 1997 da Sarajevo è stata per un certo periodo in forse. «Teheran era un tassello fondamentale del dialogo in musica tra Occidente e Oriente che cerchiamo di instaurare nei nostri viaggi » spiega Cristina Mazzavillani, a capo della complessa macchina organizzativa (tecnica e diplomatica) che dopo gli attentati ha subito un inevitabile rallentamento. Così dalla piazza d’armi dove c’è la sede del ministero degli Esteri il concerto è stato spostato nella più blindata Vahdat hall, la 'casa' dell’Orchestra sinfonica di Teheran, fondata nel 1933, chiusa quando a capo del governo c’era Mahmud Ahmadinejad e tornata a fare musica da due anni: tre concerti al mese, autori occidentali sul leggio, esibizioni in tutto l’Iran, l’ultima in uno stadio davanti a quattromila persone sotto la guida di Shardad Rohani. «L’Iran ha una grande tradizione musicale, un patrimonio che nessuno può comprare con i soldi' dice strappando la promessa a Muti che quando tornerà dirigerà “musica persiana”».

Per intanto in quattro giorni di prove il direttore d’orchestra napoletano ha portato italiani e iraniani a parlare lo stesso linguaggio, «quello di Verdi autore che ovunque lo si suoni lo si capisce. I giovani musicisti iraniani si sono subito immedesimati in que- sto mondo fondendosi e confondendosi con i musicisti italiani. In fondo abbiamo gli stessi colori nella bandiera e le nostre culture sono sempre state in dialogo», dice ancora Muti con sottobraccio partitura e bacchetta, pronto a tornare in Italia subito dopo il concerto, perché stasera si replica a Ravenna. In valigia il ricordo di una serata unica, di quelle che resteranno per sempre impresse nella memoria. In sala (oltre settecento i biglietti gratuiti distribuiti) il ministro dell’Economia e i viceministri di Esteri e Cultura iraniani accanto al sottosegretario Dorina Bianchi (il nostro ministero per i Beni culturali ha coperto metà dei costi, stimati in quattrocentomila euro) e ad una folta rappresentanza della comunità italiana, fatta soprattutto di dirigenti di piccole e medie imprese che producono un interscambio di due milioni di euro. Sul palco, sovrastato dai volti di Khomeyni e Khamenei, presenti in ogni angolo della Repubblica islamica, cinquanta ragazzi diplomati nei due Conservatori di Teheran dividono i leggii con i colleghi italiani, una trentina dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini e venti professori delle principali fondazioni lirico sinfoniche. Ragazzi che appartengono a culture che oggi il mondo vorrebbe tenere divise – l’Oriente e l’Occidente che spesso si parlano attraverso sanzioni e bombe – suonano insieme, dialogano attraverso la musica che «è la più grande ambasciatrice», commenta Muti che ha scelto un programma tutto al maschile, con arie e duetti verdiani cantati esclusivamente da uomini, Piero Pretti, Luca Salsi e Riccardo Zanellato. Perché in Iran la legge non consente che in un concerto ci sia un’aria cantata da una donna. La stessa legge che impone il velo – a Teheran rosso per le orchestrali, giallo per le coriste (insieme con le voci iraniane quelle del Municipale di Piacenza) – e che non consente che una donna stringa la mano a un uomo in pubblico. Muti, con la testa ancora dentro Verdi e convinto che «la musica è al di sopra di tutto e non fa distinzioni», per un attimo se ne dimentica. Allunga la mano per una stretta cordiale. Ma la violinista in prima fila, con un sorriso, la ritrae. Fa uno strano effetto.

«Ma la parola d’ordine del governo riformista di Hassan Rohani è gradualità. Certo l’esecutivo ha capito che questo concerto era un’occasione per mostrare il volto dell’Iran aperto e dialogante», riflette l’ambasciatore italiano, Mauro Conciatori, per il quale «la ricaduta sarà progressiva nel tempo. Si dirà a lungo che un mese dopo gli attentati Muti è venuto a dirigere a Teheran». Il direttore d’orchestra sorride. Poi si butta nel traffico che non conosce tregua (la benzina costa l’equivalente di trenta centesimi e tutti usano l’auto) di Teheran, una città da tredici milioni di abitanti, ordinata e pulita, dove chi sta bene è la borghesia e dove il ceto medio, con uno stipendio pari a novecento euro, spesso fatica ad arrivare a fine mese. Sulla strada manifesti con la Statua della libertà con passamontagna e kalashnikov. «Uno dei viaggi più importanti, vista soprattutto la situazione che il mondo sta attraversando», commenta Muti, direttore della Chicago symphony nell’America di Donald Trump e di recente sul podio in Israele, Paesi che con l’Iran faticano a dialogare. «Sono una persona che crede in un mondo di pace e di bellezza», conclude il maestro. A Teheran è l’alba. Orchestrali e corsiti salgono sull’aereo. Si viaggia da Oriente a Occidente. Inseguendo il sole e la sua luce (di speranza) che corre per illuminare il mondo.