Le storie. Musica nei lager: quando il canto delle donne era più alto del filo spinato
Un'immagine di “Playing for Time”, film per la tv scritto da Arthur Miller sulle donne musiciste di Auschwitz. Poi portato anche in teatro, si ispira alle memorie della pianista Fania Fénelon
«In nessun modo ci siamo seduti a piangere sulle rive dei fiumi di Babilonia», scriveva il compositore ebreo Viktor Ullmann internato nella città-lager di Theresienstadt (e poi gasato a Birkenau). Francesco Lotoro definisce la musica nei campi di concentramento «un miracolo nella tragedia». Dal 1989 il pianista pugliese raccoglie in tutto il mondo le musiche composte da deportati e prigionieri tra 1933 e 1953, un patrimonio che ha raggiunto 8mila opere e 12mila documenti. Una ricerca per la quale nel 2014 ha creato la Fondazione ILMC. Sotto la cura di Lotoro una particolare selezione di queste musiche, perché tutta al femminile, rivivrà mercoledì al Parco della Musica di Roma durante il Concerto per il Giorno della Memoria “Libero è il mio canto. Musiche di donne deportate”.
I brani in programma cantano sogni d’amore, denunce di crudeltà, ninne nanne. C’è una versione in polacco di Mamma, son tanto felice, un Salmo scritto per la liberazione di Auschwitz e, inedito in Italia, il Bolero di Ravel cantato a cappella come avveniva nel campo di internamento giapponese di Palembag, in Indonesia, grazie alla passione di due musiciste inglesi. Sul palco ci saranno le voci del soprano Cristina Zavalloni e di Paola Pitagora, che racconterà le storie delle musiciste, mentre da Tel Aviv arriva la cantante Aviva Bar-On, deportata da bambina a Theresienstadt e fortunosamente sopravvissuta. Con loro anche il Coro delle voci bianche dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, l’Ilse Weber Choir e l’ensemble Lagerkapelle. Il concerto, un progetto di Viviana Kasam e Marilena Citelli Francese realizzato col patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, andrà in onda il 27 gennaio su Rai 5.
«Dalla musica amatoriale alle grandi esecuzioni con musicisti professionale – racconta Lotoro – nei campi di concentramento e di prigionia si è sempre fatta tantissima musica, di ogni tipo e di ogni qualità. A seconda delle aree può cambiare la tipologia di strumenti disponibili o la possibilità di suonare insieme, ma in qualsiasi contesto, dai campi dell’Asse ai Gulag sovietici, si suona, si realizzano teatri, si sviluppa il cabaret. Si riescono anche ad assemblare compagini orchestrali importanti per l’esecuzione di programmi sinfonici e opere liriche».
In questo contesto la produzione femminile trova una propria specificità. «Se la musica maschile, nell’impostazione classica occidentale, tende privilegiare la figura del compositore che tale rimane anche nel campo, e questo vuole dire anche arrangiatori, istrioni, responsabili di compagini di musica popolare... nel caso della musica femminile c’è invece una forte natura collettiva e comunitaria del fare musica al punto che spesso si può parlare di “donne compositrici” che danno vita a brani in cui è impossibile individuare le singole mani».
Anche le musiche prodotte hanno diversi fili comuni: «Prevale il gusto per la melodia, i testi in tutte le lingue amano la rima. Sono molti i casi di riadattamento di melodie preesistenti con un nuovo testo che di solito evoca i figli separati, il marito disperso, la patria lontana ma anche l’attentato a Hitler e quindi l’incitamento alla resistenza; si cantano la guerra che sta per finire, i bombardamenti alleati o addirittura, mentre il campo sta per essere liberato, un inno delle vedove, un canto tra il religioso e il patriottico. Non mancano mai gusto, fantasia e senso dell’umorismo: nella loro musica il dolore si fa colore».
Seppure in ridotta quantità, non mancano lavori di grandi respiro: «A Riocreux, in Francia, un campo di internamento francese, un gruppo di donne francesi e tedesche unite dalla deportazione per motivi politici, scrive una sorta di cantata. L’etnologa Germaine Tillion nel campo femminile di Ravensbrück scrive una sorta di poema musicale con testi e melodie. Wally Karveno, pianista e attrice ebrea tedesca, nel campo di Gurs, sui Pirenei, ha scritto un Concertino per pianoforte e orchestra da camera. Troviamo quindi di tutto, ma l’elemento unificante è la donna che, trovatasi sola dinnanzi al mondo, per prima cosa non si isola ma canta insieme ad altre donne. C’è un orgoglio di genere che a volte può mancare nella visione del compositore maschile».
Bisogna sottolineare che tra i punti di maggiore forza della ricerca di Lotoro c’è quello di essere estesa a musicisti di qualsiasi estrazione professionale e artistica nonché provenienti da qualsiasi contesto nazionale, sociale e religioso, e di avere come area non solo i lager nazifascisti ma a tutto l’universo concentrazionario, adottando limiti cronologici tanto precisi quanto forti, dall’apertura del primo campo a Dachau nel 1933 alla morte di Stalin nel 1953, «data che considero simbolica perché poi con la destalinizzazione i gulag non scompaiono ma cambiano e vengono riservati ai soli detenuti politici. Bisogna però pensare che anche in Europa dopo l’armistizio del 1945 ci sono anni terribili, con deportazioni, persecuzioni e tragedie. Pensiamo alle foibe, alla guerra civile in Grecia, alle migrazioni forzate di tedeschi e polacchi dai propri territori dopo il ridisegno dei confini nazionali in Europa orientale».
Un’altra difficoltà a cui Lotoro deve fare fronte è la precarietà di queste musiche, per le quali l’oralità è spesso il solo mezzo di trasmissione. «È il caso ad esempio della musica, in questo caso femminile, romaní. È un popolo che vive di musica, respira musica ma raramente scrive quello che canta. Si è dovuto fare quindi un lavoro di tipo etnomusicologico attraverso supporti fonografici. Un lavoro a posteriori dove non manca la contaminazione, perché nella visione del popolo rom la memoria non si fissa nel tempo ma si muove, si arricchisce di elementi che in una visione filologica tradizionale sono spuri. Non dimentichiamo che ad Auschwitz- Birkenau i musicisti rom erano gli unici a potere suonare dopo il coprifuoco: la loro musica si diffondeva per tutti i block e arrivava alla caserma delle SS, le quali evidentemente la gradivano. Ci sono melodie che non potremo mai dire se è stata composta prima da un rom o da un ebreo, perché i campi di concentramento sono città metropolitane compresse all’inverosimile, dove pur volendo mantenere l’identità sociale del gruppo, la contaminazione è inevitabile. E in musica la contaminazione è semre fatto positivo: la proiezione dei propri linguaggi nel tessuto intellettuale dell’altro non è sgarbo, è atto fecondo. Succede così che un compositore quacchero britannico scriva la messa di Natale per i prigionieri cattolici, che un violinista ebreo a Dachau suoni fortissimo davanti all’ingresso del Block 26 dove stanno segretamente ordinando sacerdote Karl Leisner. Può succedere che i prigionieri ebrei di Sachsenhausen vadano dal cattolico Aleksander Kulisiewicz, prigioniero politico, una sorta di Pico della Mirandola per la memoria fenomenale: non potendo scrivere gli cantano i loro canti perché li impari a memoria. È così che sono arrivati fino a noi».