Cinema. Musica e follia, l’altra vita delle star
Durante i primi anni Sessanta cavalcarono l’onda del successo con una musica che parlava di sole e mare, divertimento e spensieratezza. Erano i Beach Boys, cantori di spumeggianti estati senza fine spese tra il surf e la sabbia. Partirono dalla luminosa California e arrivarono in tutto il mondo battendo numerosi record e diventando icona giovanile della loro generazione.Non tutti sanno però che dopo sei anni di trionfi il cantante, compositore e co-fondatore del celebre gruppo pop, il visionario Brian Wilson, smise di prendere parte ai tour con i fratelli e il cugino, si chiuse in uno studio di registrazione per sperimentare nuovi ritmi e sonorità e sprofondò in un gravissimo disagio mentale dal quale riemerse solo molti anni dopo, quando Melinda Ledbetter, la donna divenuta sua moglie nel 1995, strappò quell’anima gentile e disperata a una vita miserabile e forse anche a una morte prematura.Proprio il lato oscuro e meno noto di una storia costellata di successi è al centro del film di Bill Pohlad, Love and Mercy, in uscita oggi nelle nostre sale (prende il titolo da una canzone di Wilson contenuta nel suo album da solista pubblicato nel 1988) che, lontano dagli schemi dei classici “biopic”, ricostruisce la caduta e la rinascita di una figura leggendaria e fragilissima, osservata in due momenti chiave della sua vita: nella seconda metà degli anni Sessanta, quando durante la registrazione del rivoluzionario album Pet Sounds, uno dei più influenti nella storia della musica pop per la complessità delle armonie, la malattia mentale cominciò a farsi largo attraverso misteriose voci nella sua mente, e negli anni Ottanta, quando Wilson, ufficialmente affetto da schizofrenia paranoide, era sottomesso alla schiavitù legale, psicologica e farmacologica del terapista Eugene Landy, abusivo e manipolatorio, che aveva sostituito nella vita dell’artista la dispotica e violenta figura paterna. L’incontro con Melinda in una concessionaria di automobili, dove la donna, una ex modella, lavorava (nel film è incarnata da Elizabeth Banks), segnò l’inizio della terza vita di Wilson, che due anni fa, sul palco del Festival di Berlino, dove il film è stato presentato, è tornato a raccogliere applausi e standing ovation.Se proprio negli anni Ottanta l’astuto Landy (qui interpretato da Paul Giamatti) progettava un film biografico su Wilson con William Hurt, Pohlad (tra i produttori de L’albero della vita e 12 anni schiavo) ha scelto due attori per interpretare il leader dei Beach Boys, ovvero Paul Dano per i confusi e dolorosi anni giovanili e John Cusack per quelli della maturità e del riscatto da droghe e psicofarmaci. Lo spettatore assisterà dunque a un vibrante e profondo viaggio intimo, quello dalle tenebre alla luce, avanti e indietro nel tempo, in una ritmica alternanza di due periodi storici, gli anni Sessanta e gli Ottanta, tra le tessere di un complesso mosaico che poco a poco si ricomporrà sotto i nostri occhi. Ma saremo testimoni anche percorso artistico del protagonista che si snoda nel panorama musicale di quegli anni e nel vivace contesto sociale che la produsse. Come il titolo stesso suggerisce, Love and Mercy è un appassionato inno all’amore capace di guarire molte ferite, anche quelle invisibili. Al riparo dal cliché della pop star celebre e maledetta dal successo, dall’abusato binomio genio e sregolatezza, il film, realizzato in collaborazione con lo stesso Wilson e sua moglie Melissa, offre un ritratto umano assai più ambizioso, articolato e dolente da quello che ci si aspetterebbe da un film sui Beach Boys. Il Brian Wilson che incontriamo infatti è un uomo tormentato da un disagio psichico che non gli lascia tregua, ma anche un geniale musicista alla costante ricerca di nuove sonorità nelle quali far confluire una creatività che non fosse solo al servizio di un successo commerciale. È molto più di un semplice e lineare “biopic“ anche Miles Ahead, film sul geniale trombettista jazz Miles Davis che segna il debutto alla regia dell’attore Don Cheadle, qui anche sceneggiatore e protagonista. Presentato all’ultima Berlinale e presto sugli schermi italiani, anche questo film, che prende il titolo da quello di un album pubblicato nel 1957, propone un viaggio personale e artistico avanti e indietro nel tempo, adrenalinico e sincopato grazie a un montaggio assai nervoso, che cerca di accostare il linguaggio cinematografico a quello della musica di Davis. Lo spunto per ricostruire, ma solo in parte, la storia del jazzista e della sua leggenda “maudit” si tinge di giallo. Il musicista infatti, insieme al giornalista di Rolling Stone (interpretato da Ewan McGregor) deciso a fare uno scoop sul ritorno alla musica di Davis, è sulle tracce della registrazione di una musica rubata. Siamo alla fine degli anni Settanta, al culmine del “grande silenzio” dell’artista, un periodo assai oscuro che Davis trascorse rinchiuso nel suo appartamento di Manhattan, tra alcol e droghe.La missione della strana coppia si alterna dunque con le memorie di Davis, tra amori, tradimenti, droga e ossessioni che emergono dai continui flash back. Il regista mette molta carne al fuoco e non sempre sembra padroneggiarla alla perfezione, eppure c’è qualcosa di onesto e furioso, vitale e passionale che rende la visione di questo film un’esperienza molto interessante. Cheadle non traccia il santino di un mito della musica, che lottò per affermarsi a dispetto delle tante discriminazioni razziali subite. Non c’è nulla di cool, rilassante e sensuale in questo jazz così feroce e disperato, così facilmente associabile ad eccessi e autodistruzione. Con un approccio impressionistico, uno stile assai personale e maturo, nonostante si tratti di un’opera prima, seppure a volte eccessivamente pirotecnico, il regista tenta dunque di restituire attraverso l’esplorazione di strade poco battute e decisamente tangenziali tutte le contraddizioni di un uomo che creava immortali capolavori come Kind of Blue e Sketch od Spain mescolando talento e violenza, furore e poesia.