È stato definito in vari modi, ma sempre secondo un leitmotiv che evoca la grandezza e la retorica: cenotafio, mausoleo, monumento all’ego della sua mamma, Zaha Hadid, l’architetto di origini irachene che il giorno dell’inaugurazione del Maxxi pare si sia rifiutata per mezz’ora di scendere dall’auto che la trasportava perché all’ingresso del Museo era stata disposta la gigantesca scultura
Calamita cosmica di Gino De Dominicis che raffigura uno scheletro umano disteso a terra della lunghezza di oltre venti metri e col naso a becco. Scaramanzie della maga irachena a parte, si può dire che la moda museale di concepire musei che non servono per esporre le opere d’arte, ma per dare emozioni a un pubblico da luna park discende – ahinoi – da un «modello» che ha compiuto da poco mezzo secolo di vita: il Museo Guggenheim di New York progettato da F.Ll. Wright. Si raccontano alcuni aneddoti su questo museo, ma ce n’è uno che illustra alla perfezione la mentalità con cui gli architetti, certi architetti, pensano anche oggi i musei. L’allora direttore delle collezioni Guggenheim di pittura "non oggettiva", James J. Sweneey, si rivolge a Wright e, quasi disperato, gli chiede cortesemente se l’architetto non possa pensare spazi un po’ più ampi e alti, perché lui ha da esporre quadri molto grandi e non saprebbe dove metterli. Wright, visibilmente irritato, gli chiede: quali quadri? Sweneey gliene mostra uno e non ha neanche il tempo di fiatare che Wright allunga il suo bastone da passeggio e squarcia la tela. «La mia architettura non ha bisogno di quadri», pare sia stata la risposta di Wright, e bisogna dire che se uno si trova al Guggnheim e sale la lunga spirale trovandosi sempre col pavimento in una certa inclinazione rispetto alla visione del quadro, beh, potrebbe anche esser che alla fine si trovi d’accordo con l’architetto americano (Mario Vargas Llosa, l’anno scorso, parlando del Museo di Jean Nouvel per le arti e le culture extraeuropee, voluto da Jacques Chirac a Parigi, scriveva che «se si togliessero dall’interno i 3.500 pezzi etnologici e artistici, l’edificio non perderebbe nulla perché, per quanto mostra e rappresenta, ciò che contiene è indifferente, se non superfluo»).È bene non dimenticare che il Museo di Wright si rivelò lungo gli anni insufficiente per contenere le collezioni della Guggenheim newyorkese, così nel 1992 si aggiunse un corpo di fabbrica progettato da Gwathmey Siegel and Associates, un alto e grande parallelepipedo che pesa come una lastra tombale sull’edificio di Wright. Così, dopo i fasti di Bilbao, la Fondazione Guggenheim ha commissionato a F.O. Gehry un nuovo Museo per New York, che a causa delle difficoltà economiche per ora tarda a decollare. Del resto, Gehry si sente l’erede più vicino al grande padre Wright, e Bilbao ha imposto il suo «brand» architettonico a una quantità di altri edifici espositivi e non solo, tanto che qualcuno ha dato un nomignolo a questa moda: «Bilbaoism». In realtà, se nell’edificio di Wright agiva un impulso poetico, nella spettacolarizzazione museale contemporanea non va vista soltanto una moda estetica, ma il prodotto di una strategia di
merchandising che fece i primi passi quando Thomas Krens salì sul trono della Fondazione Guggenheim e vi restò per vent’anni fondando – come scrisse Charles Jencks – una «nuova religione» di cui il museo era la cattedrale, ovvero mise in pratica l’idea del «museo globale come pacchetto immobiliare».E qui veniamo al Maxxi e al Zaha Hadid. Criticandone la concezione come «flusso di energie», che genera un cortocircuito di punti di vista e di spazi, Germano Celant, che ha stretti rapporti con Guggenheim e Gehry, ritiene che l’edificio di Zaha Hadid esprima un’estetica «liquida e ondulatoria» tipica della cultura virtuale e tecnologica di oggi. Sarà, ma se uno segue i percorsi interni del Maxxi sembra quasi che il museo nasca come polemica disarticolazione dell’idea continua, grandiosa e «inutile» del Guggenheim di Wright, dove alla rampa che sale prendendo una forma a spirale, portandoci a un certo punto vicino al cielo che si spalanca dal grande occhio-lucernaio, si sostituisse al Maxxi una serie di cul-de-sac, di segmenti «tronchi», fluidi certamente, caotici volutamente, ma anche dispersivi. Il Museo di Wright è un tempio per qualcosa che mescola ambiguamente etereo ed eterno, vacum e spirito, sacralità e aura estetica. Quello di Zaha Hadid – che vi s’ispira proprio nel percorso ascendente sotto forma di rampa – ha la prosaica valenza di spazio «indefinito», da plasmare apparentemente, dove però si esce convinti di aver attraversato uno scalo aeroportuale, con le sue tante vetrine, i servizi, le proposte commerciali. Nonostante la spesa folle – cento milioni di euro (senza completare tutto il progetto) – il Maxxi ha delle pecche anche costruttive nella cura dei particolari: gli scalini di zinco a griglia offrono un’immagine povera e sciatta in un insieme che invece aspira al gigantismo tecnologico; i parapetti dei percorsi sopraelevati sono rivestiti di lastre che hanno subito deformazioni e mostrano fessure fra un elemento e l’altro... Cose che saltano all’occhio di primo acchito, ma è probabile che altre sciatterie esecutive emergerebbero da uno sguardo più dettagliato.E siamo a De Dominicis. Praticamente è la prima mostra antologica di una certa ampiezza, cento opere, di questo artista «magico», che sfugge a facili classificazioni. Una mostra, curata da Achille Bonito Oliva (catalogo Electa), che contrasta la volontà dell’artista, il quale ebbe sempre verso il proprio essere nel mondo un atteggiamento paradossale. Anche la sua morte, dichiarata il 29 novembre 1998, assomiglia più a una scomparsa che a un decesso. Lo sguardo da mago ipnotizzatore, l’eleganza dei modi e del gesto, il sogno perenne della morte come immortalità: vedi lo scheletro con pattini a rotelle che tiene al guinzaglio lo scheletro di un cane e sull’indice della mano destra un’asta dorata in equilibrio, celebre opera del 1969 che s’intitola
Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, o l’uomo down che alla Biennale del 1972 sedeva immobile sotto gli occhi increduli del pubblico, e i numerosi ritratti di figure con naso lungo e appuntito che sono diventati il logo che identifica De Dominicis, il suo autoritratto, la sua icona d’artista divino che portando alla luce il paradosso, visivo o linguistico, dichiara l’inconsistenza della distinzione tra superficie e profondità, fra sostanza e apparenza, nella realtà che ci circonda e ci proietta nell’universo, quasi per dire che anche ciò che è piccolo, o accidentale, è capace di produrre uno stallo nel moto «universale», o una sua discontinuità, magari usando i mezzi minimi dell’arte. È una mostra che fa capire la grandezza anche pittorica di un genio che venne sempre guardato come uno stravagante, mentre sapeva bene ciò che cercava; eppure, è una mostra che dissacra il mito, diluendolo lungo i percorsi afasici e sacrificati (sacrificali?) di questo museo, dove la pendenza della «passeggiata» interna non riesce mai a evocare e a favorire l’anabasi interiore ed estetica; anzi, disperde e priva dell’aura un artista che andrebbe guardato con l’occhio contemplativo, e il tempo-ritmo necessario alla pittura sacra, per quanto, egli, sia e rimanga un artista «naturale», uno che cercava la
magia naturalis nascosta nelle cose.