C’è totem e totem. Esistono quelli delle tribù degli indiani d’America, ma oggi vanno di moda anche quelli supertecnologici con i video
touchscreen. «Nascita, infanzia, riti di iniziazione, matrimonio, organizzazione sociale, antenati, arti e mestieri, religioni ». Basta un semplice clic, una strisciata di mano, ed eccoci in una
full immersion nell’Africa più intima ma anche dentro quella poco conosciuta. Perché se – purtroppo spesso – il Continente nero resta nell’immaginario collettivo luogo di arretratezza e povertà, è altrettanto vero che proprio dalla terra africana arrivano indicazioni e segnali di inedita vitalità. Su queste due direttrici – antichità e modernità, povertà e
new global, passato e grattacieli – si muove il nuovo, interessante allestimento del «Museo africano » dei missionari comboniani, situato nella casa madre dell’istituto fondato da Comboni, in vicolo Pozzo a Verona
www.museoafricano.org, tel. 045/8092199). Interessante anzitutto per la filosofia che vi soggiace: «Abbiamo voluto far dialogare le suggestioni e le domande proposte dalla collezione etno-antropologica con le Afriche contemporanee che vanno acquisendo maggior rilevanza», spiega
padre Venanzio Milani, direttore e coordinatore del
restylingdel Museo, che verrà inaugurato venerdì alle 17.30, alla presenza – tra gli altri – dell’antropologo dell’università di Genova Marco Aime, il quale da gennaio firma una rubrica sul mensile
Nigrizia. Le radici del Museo affondano nel lontano 1882, quando il successore di Comboni, monsignor Francesco Sogaro, diede l’input per «istituire a Verona una sede per raccogliere gli oggetti interessanti, la scienza e le curiosità che dall’Africa saranno spediti dai missionari». Si noti il termine «scienza» in collegamento ai popoli africani, quando – siamo nell’Ottocento positivista – a quelle genti non si dava nemmeno il riconoscimento dovuto di dignità umana. Ebbene, nel nuovo Museo sono soprattutto i colori, i suoni e le immagini a spiccare per i visitatori (grandi e piccini: buono l’afflusso delle famiglie, «nel 2013 abbiamo avuto oltre diecimila presenze, la metà dalle scuole» spiegano i coordinatori). Così il 'cuore' del «Ma» – una sigla che vuole essere anche un messaggio: stop ai luoghi comuni sul Continente! – è il nuovissimo tucul, il richiamo alle capanne comuni nei villaggi africani, dove 4 schermi proiettano altrettanti approfondimenti: 54 schede per ciascuno degli Stati, una parete con una trentina di proverbi locali («Molto apprezzati dai visitatori, che spesso se ne trascrivono alcuni»), un video sulla globalizzazione in salsa «nera», e un’affascinante proiezione su flora e fauna sub-sahariana. «Fino agli anni Novanta facevano bella mostra gli animali imbalsamati, oggi funziona di più questa modalità» spiega Milani parlando dei documentari introdotti da Filomeno Lopes, giornalista guineano di Radiovaticana che funge da accompagnatore virtuale nel «Ma»
hi tech. Sono in bella mostra i pezzi più celebri della collezione comboniana: nella sezione «vita» le due statuine di gemellini lignei, provenienza dal popolo Yoruba (Nigeria); una splendida scultura bronzea ritraente la Madre primordiale (dai Bamun del Camerun); l’albero della vita, scultura tutta d’un pezzo in ebano, di 1.5 metri d’altezza, di provenienza senegalese; il trono ligneo del re e della regina del popolo Chokwe, di ambiente angolano. Nella sezione «religioni», svariate e difformi croci etiopi: quelle a di tipo latino per uso privato (con l’impugnatura alta per portarle in mano), quelle greche per uso liturgico; un libro della Chiesa copta con estratti del Vangelo in arabo e – curiosità per la compenetrazione di lingue, si penserebbe, 'nemiche' – un testo liturgico bilingue, in arabo e aramaico. La curiosità dei missionari non si è fermata all’ambito cristiano, ma si allargata alle religioni tradizionali e all’islam: ecco dunque da ammirare un antico vestito dei dervisci, i danzatori islamici, costituito da varie toppe di diverso colore; alcune pagine del Corano, in particolare la «Sura del Sole», datate XVI secolo e provenienti dall’Egitto; una teca raccoglie tutti gli oggetti tipici del culto vudù: amuleti, pendagli e ingredienti per ottenere responsi dagli spiriti. Le novità del «Ma» si infittiscono mentre si procede nelle varie sale, dove anche la disposizione delle teche è stata modificata rispetto all’ultimo allestimento datato 2006: sono stati introdotti oltre 300 pezzi in più, ma sono soprattutto le installazioni video a fungere da introduzione per visitatori e curiosi (per i più piccoli 20 laboratori aiutano ad approfondire culture, religioni, storia d’Africa). «Anche i più giovani desiderano ascoltare le ricostruzioni dell’epoca coloniale e post- coloniale che proiettiamo» annota Milani facendo strada nella nuova saletta video. E molto interesse suscita l’inedita sezione «musica», dove grandi e piccini possono provare a cimentarsi con strumenti di altri popoli: il grande tam tam degli Azande del Congo, che può lanciare messaggi a chilometri di distanza; la kora, strumento tipico dei cantastorie del Senegal; il manjingi, un’alta tromba in legno tipica dei Bongo del Sud Sudan, simile a quella usata dagli aborigeni d’Australia.