La mostra. Ai Musei Vaticani l'arte e la spiritualità della Corea del Sud
«Noi siamo qui per la pace». Presentando la mostra in Vaticano per i 230 anni del cattolicesimo coreano, il portavoce dell’arcidiocesi di Seul, don Mattias Hur Young-yup, lo afferma con forza e lo sottolinea più volte, anche a nome del suo arcivescovo, il cardinale Andrew Yeom Soo-jung. Il riferimento alla crisi della Corea del Nord è più che evidente. Ma subito dietro di lui, sul cartellone che nell’atrio del Braccio di Carlo Magno, in Vaticano, chiude il percorso della manifestazione intitolata Come in cielo così in terra, dedicata alla singolare vicenda di questa Chiesa d’Oriente, emerge una frase che spiega il significato intimo dell’iniziativa, apre un vasto orizzonte di significato all’espressione di don Mattias: «Ricordare il motivo per cui cercavamo la fede per non accontentarci della comodità attuale».
La fede come stile di vita e come impegno per la pace. Una chiave di lettura che fa di questa mostra ben più di una semplice esperienza culturale, ma un vero e proprio viaggio nelle ragioni del credere in Cristo Gesù. La mostra viene inaugurata oggi dallo stesso cardinale arcivescovo di Seul (resta aperta a ingresso gratuito fino al 17 novembre), alla presenza del sindaco della capitale della Corea del Sud, Park Won-soon, la Conferenza episcopale coreana, autorità vaticane, delegati di vari Paesi asiatici e 83 ambasciatori presso la Santa Sede. Ieri, alla presentazione per la stampa, c’erano, oltre a don Mattias, la direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta e il direttore del Museo di storia di Seul, Song In-ho, che ha curato la mostra insieme all’arcidiocesi di Seul, con la collaborazione del Comitato di Esaltazione dei martiri coreani e il patrocinio dei Musei Vaticani, del governo metropolitano di Seul e dell’ambasciata della repubblica di Corea presso la Santa Sede.
Unica al mondo, la Chiesa in Corea nasce senza missionari, senza clero e senza predicatori, per semplice volontà di alcuni intellettuali che nella seconda metà del Settecento si rendono conto che il confucianesimo non riesce più a interpretare la società e si mettono alla ricerca, culturale, di una qualche forma di fede e di idea sociale che possa sostituirlo. Siamo nella città di Hanyang (l’odierna Seul), capitale del regno di Josean. I giovani intellettuali in ricerca, guidati da Kim Beom-woo, si riuniscono in un tempio confuciano. Le loro discussioni durano alcuni anni. Leggono i primi testi provenienti dall’Occidente attraverso la Cina. Fra questi ci sono la Bibbia, libri di preghiere cristiane e catechismi cattolici redatti a Pechino.
La lettura di questi scritti apre loro un mondo nuovo. La società coreana dell’epoca è suddivisa in quattro caste fra loro nettamente separate e incomunicanti. La dinastia reale governa con pugno di ferro e professa una ideologia neoconfuciana che avalla e avvalora le divisioni, con la conseguenza che la casta dei nobili e intellettuali è sempre più ricca e le tre altre classi (contadini, artigiani e commercianti) sempre più sfruttate, distanti e povere. Kim Beom-woo e i suoi restano affascinati dagli scritti cristiani e subito colgono di quella fede lo spirito di liberazione e di uguaglianza. A loro sembra che su queste basi la società coreana possa risolvere i sempre più laceranti conflitti interni e rinascere per affrontare la sfida del mondo nuovo che seppur lontano si profila all’orizzonte.
Ma come possono fare per diventare cristiani considerando che nei fatti il governo impedisce l’arrivo di missionari? L’idea che hanno è tanto elementare quanto straordinaria: inviano uno di loro, Yi Seung-hun, a Pechino per incontrare la Chiesa locale. All’epoca il viaggio durava sei mesi. Quando Yi Seung-hun ritorna è il 1784. Si reca a casa di Yi Byeok e lo battezza con gli altri compagni. Qui nasce la prima comunità di fedeli. Presto il leader diventa Jeong Yak-jeon a cui si deve la prima traduzione del catechismo in coreano a uso del popolo.
La nuova fede è tanto rivoluzionaria che la diffusione diventa contagiosa raccogliendo fedeli in tutte le classi sociali. Ciò che attrae è soprattutto il fatto che si riuniscono insieme, nell’uguaglianza, senza differenze di casta. Una serenità che dura solo qualche tempo. Già l’anno dopo il governo vieta le riunioni di cristiani. Una ferocissima persecuzione ha inizio nel 1791 e cesserà ufficialmente nel 1895 con l’incontro fra l’ottavo vescovo di Joseon, monsignor Mutel e il re Gojong che esprime tutto il suo rammarico per i massacri dei decenni precedenti.
Una storia che la mostra racconta con efficacia attraverso testi ufficiali, pannelli esplicativi, i catechismi tradotti da quel primo gruppo di cristiani entusiasti, ma soprattutto con l’attenta documentazione storica del martirio che quella giovanissima Chiesa è costretta a patire. Si parla di oltre diecimila morti ufficiali, torturati e uccisi nei modi più fantasiosi e terribili dagli emissari governativi. In realtà sarebbero stati molti di più, perché l’ordine era di tagliare prima la gola e soltanto dopo denunciare l’avvenuta uccisione.
In mostra si vedono anche alcuni degli oggetti religiosi di quelle prime comunità, che scavi recenti hanno trovato nei terreni vicini ai villaggi, dove erano stati nascosti per salvarli dalla distruzione. Non mancano alcune bellissime immagini mariane, come una Madonna con Gesù in braccio e il piccolo Giovanni Battista per mano, o una immagine del Rosario delle sette gioie della Vergine Maria, o la più recente Madonna Bianca dell’artista Chang Woo-sung. Ma anche i disegni del primo vescovo, minuscoli calici utilizzati dai sacerdoti per celebrare senza farsi scoprire, tavolette xilografate con testi di preghiere e formule catechistiche.
Di grande interesse il Breve Apostolico con cui papa Gregorio XVI istituisce il 9 settembre 1831 il Vicariato apostolico di Joseon, affidandolo a monsignor Bruguiere della Società delle missioni estere di Parigi, separando la Chiesa coreana da quella di Pechino. Nei fatti il primo prete, padre Chu Mun-mo, era arrivato dalla Cina a fine 1794, dopo che i fedeli avevano inviato numerose richieste sia a Pechino che a Roma. Di queste missive viene fornita ampia documentazione, considerando le tappe del lungo viaggio che dovevano percorrere al punto che la risposta da Roma poteva giungere anche due anni dopo. Padre Chu celebra la prima messa a Bukchon nel 1795. Da quel giorno in pochi anni si uniscono alla Chiesa quattromila persone.
Oggi, nonostante le nuove persecuzioni con l’occupazione giapponese e con la recente dittatura militare (entrambe fortemente osteggiate dalla Chiesa), i fedeli in Corea del Sud sono 5,6 milioni e costituiscono la quinta realtà cattolica in Asia dopo Filippine, India, Indonesia e Vietnam. Il suo recente rilancio nasce dal Congresso eucaristico internazionale di Seul del 1989 che non a caso si intitolava "Cristo nostra pace". Da lì si è rafforzato anche l’impegno missionario con sacerdoti e religiosi inviati nei Paesi comunisti ed ex comunisti dell’Asia come Cina, Mongolia e Cambogia.
Una Chiesa giovane che può già contare su 103 santi, 124 beati, un venerabile, 252 servi di Dio, in gran parte martiri, con tante donne e famiglie intere. Nel presentare la mostra Barbara Jatta ha ricordato che le opere esposte sono 181 quasi tutte provenienti dalla Corea e solo in minima parte dai Musei Vaticani. Quindi ha parlato dei progetti culturali, di ricerca e restauro che hanno legato e legano la Corea del Sud alla Santa Sede, a cominciare dalla mostra sul Rinascimento organizzata a Seul nel 2012.