Un anno fa destabilizzò l’ambiente del tennis, da sempre abbastanza chiuso e tradizionalista, annunciando una scelta controcorrente, costata sorrisi ironici e critiche, anche pesanti. Eppure la scelta sembra aver funzionato benissimo. Lo scorso giugno lo scozzese Andy Murray, terzo al mondo nelle classifiche mondiali, assunse Amelie Mauresmo come allenatrice, primo atleta tra i migliori del ranking a farsi guidare da una donna, e i risultati non si sono fatti attendere. Quest’anno ha vinto l’Atp di Monaco e il Master 1000 di Madrid, battendo in finale Rafa Nadal, considerato il più grande giocatore su terra battuta di tutti i tempi. Poi si è ritirato al secondo turno a Roma per preparare meglio gli Open di Francia, dove ha appena raggiunto i quarti di finale al Roland Garros e oggi sfiderà Ferrer. Sul campo Murray ha dimostrato una qualità di gioco superiore, secondo alcuni commentatori, anche a quella della vittoria del campionato US Open del 2012 e di Wimbledon nel 2013. Colpire la palla prima possibile, stando sulla linea di fondo senza dare tempo all’avversario di rispondere, e un servizio perfetto, più centrato sulla figura dell’avversario, queste le novità tecniche da quando lo allena Amelìe. Ma la svolta è stata soprattutto mentale, perchè Murray sembra aver dimenticato il panico e la frustrazione per le quali si era fatto notare l’anno scorso a Wimbledon. Guadagnando un grande controllo di sè, costruito su una gestione perfetta delle emozioni. Proprio questo sembra essere stato il vantaggio più importante ottenuto dalla guida della Mauresmo, oggi 36enne ed ex numero uno del mondo che conta all’attivo l’Australian Open e Wimbledon vinti nel 2006. «Non è piacevole sedersi con cinque o sei uomini attorno a un tavolo in un ambiente competitivo», ha raccontato Murray, un anno fa, spiegando la sua decisione di farsi guidare da una donna, «spesso ho sentito che era difficile aprirsi e parlare di sentimenti perchè viene considerato un segno di debolezza ». Non così con Amelie, «calmissima e capace di ascoltare», come ha detto sempre di lei Murray, con la quale il campione sa di «collaborare più che competere» imparando così a fare meglio i conti con le proprie emozioni. Secondo uno studio, sarebbe proprio l’accuratezza empatica, ovvero la precisione con la quale l’allenatore è in grado di capire le emozioni dell’atleta, ad essere più alta tra le donne. Un vantaggio non indifferente se si considera l’importanza della psicologia nel gioco del tennis che rimane, in ogni caso, riserva di caccia quasi esclusiva degli allenatori maschi. Per chi, come Murray, vuole andare controcorrente, la strada è tutta in salita. Lo scozzese ha ammesso di essere rimasto sorpreso dal livello di negatività che la Mauresmo è riuscita ad attirare su di sè in un anno di lavoro. «È incredibile il livello di critiche che Amelie ha ricevuto per ogni partita che ho perso», ha spiegato. «Un’esperienza che mi ha aperto gli occhi su quanta discriminazione esista ancora nei confronti delle donne». Murray è soltanto il secondo a tentare il binomio tra allenatore donna e tennista campione uomo. Se si fa eccezione per Tim Mayo, con la sua leggendaria allenatrice Billie Jean King, soltanto Andrei Chesnokov, negli anni Novanta, osò tanto facendosi guidare per tutta la carriera da una donna. Attirandosi, proprio come Murray, scherno e perplessità. Atteggiamento incomprensibile per la sua allenatrice russa Tatiana Naumko che credeva nella parità tra i sessi nel tennis. Unico limite, secondo l’ex campionessa, la minore forza femminile nel colpire la pallina, rimediata, però, facilmente da molti altri vantaggi. «Ogni uomo ha una mamma», così la Naumko spiegò il proprio ruolo, «e le mamme insegnano ai figli maschi in continuazione». Non potrebbe essere più vero per Andy Murray che assaggiò il tennis per la prima volta a tre anni, sul tavolo della colazione della sua casa di Dunblane, grazie alle racchette fatte di scatole di cereali messe in campo dalla mamma allenatrice Judy. A lei, una delle tenniste più determinate della storia, Andy deve buona parte del suo successo. Una competitività appassionata, nel sostenere il figlio, più volte criticata dalla flemmatica Inghilterra. «Se fossi un padre invece nessuno direbbe che sono invadente», si è difesa mamma Murray, femminista convinta, ultima di una serie di mamme allenatrici che comprende Gloria Connors e Klaudiya Istomin. Insomma è tutta una questione di punti di vista. Spettatori, giornalisti e campioni con gli occhi fissi sulla pallina non ce la fanno a riconoscere, dietro i punti vincenti del campione, il corpo e la mente di una allenatrice femmina. Secoli di maschilismo provocano pregiudizi difficili a morire. Chissà che il tennis, uno dei primi sport conquistati dalle donne, ora abbia cominciato a mettere la parola fine su questa ennesima disparità tra i sessi.