Salone del libro. Muñoz Molina: «Solo nella scrittura trovo l'intensità della vita»
Per il protagonista di Il vento della luna di Antonio Muñoz Molina (appena riproposto da 66thand2nd nella traduzione di Maria Nicola, pagine 296, euro 18) il futuro è una visione di razzi spaziali e orbite planetarie, scienze esatte e libertà. L’anno è il 1969, Neil Armstrong fa il suo piccolo passo sulla Luna, la Spagna è ancora sotto la dittatura. «Allora si pensava molto al futuro commenta l’autore, tra i protagonisti del Salone internazionale del Libro che apre oggi a Torino -, la fantascienza trasmetteva un sentimento di speranza per le meraviglie del Duemila. Noi ragazzi avevamo la sensazione di vivere nell’era di un progresso illimitato. Oggi, in apparenza, la prospettiva si è rovesciata: il futuro è il cambiamento climatico, è l’instabilità planetaria. È qualcosa che ci spaventa. Ma non è detta l’ultima parola».
Nato in Andalusia nel 1956, accademico di Spagna e vincitore di premi prestigiosi, Molina è da tempo considerato uno dei maggiori scrittori contemporanei. Nei suoi libri (tra cui spiccano il capolavoro Sefarad, L’inverno a Lisbona e Come ombra che declina, anch’esso pubblicato di recente da 66thand2nd) l’elemento autobiografico si intreccia di continuo con le vicende storiche del Novecento: il franchismo, l’assassinio di Martin Luther King, l’allunaggio, gli sbarchi dei migranti a Ceuta… «Se ripenso alla mia esistenza - dice - mi sembra di aver vissuto più di una vita. Da bambino ho conosciuto la povertà della società rurale, da ragazzo ho maturato una coscienza politica antifranchista, da giovane ho potuto salutare la conquista della democrazia nel mio Paese. Mutamenti radicali, spesso impensabili».
Quindi non sbagliava a fidarsi del futuro?
No, credo di no. Ed è per questo che, ogni volta che sento avvicinarsi la tentazione del pessimismo, torno a riflettere su quello che è accaduto negli ultimi cinquant’anni e che, a dispetto di tutto, si è rivelato di gran lunga più entusiasmante di quanto avessi sperato. La componente autobiografica dei miei libri viene da questa consapevolezza ed è anche un omaggio ai primi narratori nei quali mi sono imbattuto durante l’infanzia: persone semplici, contadini che rinsaldavano il rapporto con il passato ripetendo le storie di cui erano stati testimoni o che erano state tramandate dalle generazioni precedenti.
Qual è, per lei, la principale caratteristica del romanzo?
Rispetto ad altri tipi di narrazione attualmente molto apprezzati, come le serie televisi- ve, il romanzo riesce a riprodurre la complessità dell’esperienza umana in modo molto profondo e accurato. Più ancora di quanto possa fare la filosofia, aggiungo, perché ogni sistema concettuale tende all’astrazione, che è una forma di semplificazione. Da Cervantes in poi, invece, il romanzo non ha mai smesso di esplorare le contraddizioni della realtà. Don Chisciotte è la dimostrazione di come si possa essere completamente folli e nello stesso tempo pienamente razionali. Perfettamente umani, dunque. La complessità del romanzo non è altro che una conseguenza della complessità del mondo e, insieme, un tentativo di rappresentarla.
Vale anche per il rapporto con l’altro?
Certo. Mi viene in mente un episodio del Don Chisciotte, quello in cui Sancho incontra un compaesano che è stato cacciato dalla Spagna in quanto morisco, ossia di origine musulmana. L’uomo non riesce a comprendere il provvedimento di cui è vittima, è divorato dalla nostalgia per il villaggio in cui è nato e che ha dovuto abbandoche nare. All’improvviso Sancho lo abbraccia e con quel gesto cancella per un istante ogni differenza. Ristabilisce la giustizia, riscopre l’umanità.
Una lezione ancora valida?
Sì, l’abbraccio di Sancho non è solo un’immagine simbolica. Nel primo decennio del XXI secolo la Spagna ha accolto quasi dieci milioni di immigrati, senza che un fenomeno di proporzioni così imponenti causasse l’insorgere di sentimenti xenofobi. Il problema non sono mai i flussi migratori, ma l’uso politico che se ne fa. Non per niente, tanto minore è il numero di migranti effettivamente presenti in un Paese, tanto maggiore è l’allarme trasmesso all’opinione pubblica. Sta accadendo negli Stati Uniti, ma anche in molte parti d’Europa: Italia compresa, purtroppo. Abbiamo dimenticato che, alla fine della Seconda guerra mondiale, il nostro era un continente di profughi allo sbando e che le migrazioni fanno parte della nostra storia comune.
Qual è, a suo parere, il segnale viene dalle recenti elezioni spagnole?
La partecipazione è il miglior modo per opporsi agli estremisti: ne sono convinto da sempre e la consultazione del 28 aprile mi pare lo abbia confermato. In Spagna come altrove, la stragrande maggioranza degli elettori esprime un orientamento moderato. Con il loro voto possono impedire il sopravvento di formazioni come Vox, che nella sua propaganda fa appello all’inaccettabile nozione di 'Anti Spagna', la stessa che i franchisti adoperavano per bollare ogni tentativo di opposizione. C’è un passato oscuro con il quale non si può scherzare e la partecipazione rimane lo strumento più forte per difendere la democrazia.
Se ne sta parlando molto anche a proposito del Salone del Libro, lo sa?
Ho sentito delle polemiche di questi giorni e non me la sento di intervenire nello specifico. Come principio generale, però, sono abbastanza contrario a interventi di proibizione. Se c’è un estremista in giro, preferisco che si esprima con chiarezza, di modo che tutti possano sapere come la pensa. Ci sono situazioni in cui è necessario imporre un limite, d’accordo, e su questo devono vigilare con fermezza le istituzioni democratiche. Nello stesso tempo, non credo che la moltiplicazione dei divieti sia in sé una garanzia. Insisto, anche pensando alle elezioni europee ormai imminenti: solo la partecipazione può fare da argine all’estremismo. L’Unione si difende così, con entusiasmo, direi addirittura con passione.
La stessa che si trova nei suoi libri?
La passione è l’impulso fondamentale della mia scrittura: mi spinge a raccontare il mondo, a trasmettere la meraviglia che provo davanti al dispiegarsi della realtà. Mettere mano un romanzo, per me, è come dare consistenza a quel versetto ricorrente nella Genesi, quando Dio contempla quello che ha creato e riconosce che è 'cosa buona'. Non è un giudizio, è una constatazione. Nel mondo ci sono molte ingiustizie, è innegabile. Ma rimane sempre spazio per l’entusiasmo che la bellezza provoca in noi. La letteratura, per me, assomiglia all’amore, perché ci restituisce l’intensità dell’esperienza: della passione per la giustizia o per una donna, ma anche dell’indignazione contro il fanatismo.
Qual è il ruolo della memoria in questo processo?
Decisivo. Me ne sono accorto, una volta di più, nei giorni scorsi, mentre viaggiavo tra Roma e Perugia. Era la stessa strada che avevo percorso in autostop quasi quarant’anni fa, quando studiavo storia dell’arte all’università. Aveva dedicato un anno intero ad approfondire il Quattrocento italiano e d’improvviso mi ritrovavo negli stessi paesaggi di Piero della Francesca, di Botticelli, di Masaccio. È tutto ancora qui, con me: le immagini viste sui libri, l’emozione di quel primo incontro, la gioia che ancora adesso provo nel ricordarlo. «Ho sentito delle polemiche di questi giorni: in generale sono contrario a interventi di proibizione, anche se a volte è necessario imporre un limite Ma il miglior modo per opporsi all’estremismo è partecipare»