Agorà

La scrittrice bosniaca. Mujcic e il dolore della lingua madre a Srebrenica

Riccardo Michelucci giovedì 26 maggio 2022

La scrittrice bosniaca Elvira Mujcic

I Dialoghi di Pistoia tornano da domani a domenica 29 maggio. La XIII edizione del Festival di antropologia del contemporaneo vedrà gli interventi di antropologi, filosofi, scrittori, storici, psicoanalisti, comunicatori, artisti per offrire nuovi sguardi sulle società umane. Il tema del 2022 Narrare humanum est. La vita come intreccio di storie e immaginari affronterà l’importanza e la centralità della narrazione per il genere umano in ogni epoca, cultura e contesto. Elvira Mujcic interverrà il 29 al teatro Manzoni in dialogo con l’antropologo Marco Aime.

Elvira Mujcic era ancora una bambina quando scappò da Srebrenica con la madre e i fratelli, nei giorni del genocidio. Suo padre e suo zio finirono invece inghiottiti dalla pulizia etnica. Da allora la scrittrice italo- bosniaca ha vissuto sulla propria pelle l’esilio, lo sradicamento e le difficoltà di integrazione in un altro Paese. In Italia è stata costretta a ridefinire la propria identità e a ricomporre la sua vita un pezzo per volta, scoprendo il potere salvifico della letteratura. Nella sua opera prima, lo struggente racconto autobiografico Al di là del caos, ha ricostruito i suoi primi anni da immigrata, quelli in cui cercò in tutti i modi di fare i conti con la pesante eredità del conflitto. Per salvarsi da un passato troppo doloroso ha dovuto dire addio alla sua lingua madre, ovvero il bosniaco, una delle varietà del serbo-croato. «Per un mondo nuovo ci vuole una lingua nuova - ci confessa da Roma, dove vive da tanti anni . Inizialmente l’italiano mi ha portato un profondo spaesamento, ma poi è stata una scoperta liberatoria, mi ha arricchito e mi ha consentito di dimenticare le esperienze tragiche vissute con la mia lingua madre. Senza l’italiano non avrei scoperto la mia scrittura e forse avrei maturato anche un modo diverso di pensare». Oggi Mujcic parla un italiano perfetto, che potrebbe essere facilmente scambiato per quello di una madrelingua, e sostiene di aver rimosso il bosniaco per un desiderio psicologico di allontanarsene, per issare una barriera emozionale e linguistica con gli anni della sua infanzia. «In seguito l’ho imparato di nuovo, ma ormai posso dire di conoscerlo peggio della mia seconda lingua, con la quale ho stabilito quasi un patto di sopravvivenza». Domenica 29 maggio Mujcic si confronterà con l’antropologo Marco Aime alla rassegna Dialoghi di Pistoia (teatro Manzoni, ore 16,30) in un incontro dal titolo 'Sguardi incrociati. Attraversare il muro dell’alterità'. Il tema sarà quello del raccontarsi e del riconoscere l’'altro' attraversando i confini geografici, linguistici, religiosi e identitari. Per lei sarà l’ennesima occasione per guardarsi allo specchio, ripensando a tanti anni fa. Ancora oggi, pur avendo trascorso gran parte della sua vita nel nostro Paese non riesce a essere un’osservatrice distante e obiettiva. «È necessario innanzitutto costruire relazioni paritarie, senza contrapporsi, cercando al contrario di ricevere qualcosa dagli altri - dice -. Ma di fronte a certe situazioni ogni volta si risveglia una parte di me che è stata emarginata e si riaccende una certa dose di rabbia e di sofferenza». Oggi è inevitabile tracciare un parallelismo tra il dramma dell’Ucraina e quello della Bosnia di trent’anni fa. Mujcic ritiene che fare troppi paragoni col passato può essere talvolta fuorviante, ma confessa che le immagini odierne dei profughi ucraini non posso che rievocarle la sua esperienza personale, quando venne accolta in Italia con la sua famiglia. E suscitarle anche una riflessione amara. «Negli ultimi quindici anni, vedendo i migranti in arrivo dall’Africa che erano spesso respinti, o comunque non beneficiavano di un’accoglienza neanche lontanamente paragonabile a quella che ricevemmo noi ho pensato che nel frattempo l’Italia fosse cambiata, che fosse venuta meno la memoria storica della Seconda guerra mondiale e l’empatia nei confronti di chi ha bisogno. Invece ho capito che dipende tutto da come certi fatti vengono raccontati, inculcando paure e xenofobie o, viceversa, suscitando pietà e solidarietà. I mezzi d’informazione e la letteratura sono fondamentali nell’indirizzare l’immagine dell’altro». Proprio come Hanna Arendt, Mujcic sostiene che sia possibile raccontare davvero soltanto ciò che conosciamo molto bene e dopo aver descritto un’identità sospesa tra l’Italia di oggi e la Jugoslavia di prima della guerra nel romanzo Dieci prugne ai fascisti, nel suo ultimo libro Consigli per essere un bravo immigrato ha analizzato a fondo gli stereotipi sui richiedenti asilo che arrivano nel nostro Paese. Scoprendo, non senza un certo stupore, che quando devono raccontare le loro vite davanti alla commissione che valuta le richieste d’asilo sono spesso costretti a fingere e vengono inseriti, loro malgrado, in una dimensione quasi letteraria. «Devono raccontare storie credibili e rispondere a determinati criteri, un po’ come se dovessero vendere la loro storia a un editore, solo che in palio non c’è la pubblicazione di un libro ma il riconoscifrancamente mento di uno status che spesso consente loro di sopravvivere o meno». Persino lei, ci rivela, è stata costretta a mentire: «Sono nata a Loznica, una cittadina della Serbia a poche decine di chilometri da Srebrenica, ma sono bosniaca a tutti gli effetti. Quando arrivai in Italia non riuscivo a farmi capire ed era impossibile spiegare il dissesto geopolitico che avevamo alle spalle. Allora ho detto semplicemente che Loznica era una località bosniaca, 'annettendo' di fatto una cittadina serba alla Bosnia. Nei miei documenti c’è un dato burocratico che mi perseguita ancora oggi. Ma in fondo la menzogna è soltanto un altro modo per potersi permettere di essere veri». In questi anni le è capitato anche di tradurre in italiano autori e autrici serbocroate ma quando le chiedono di tradurre libri su Srebrenica rifiuta sempre, perché la sua lingua madre è capace ancora di farle rivivere emozioni terribili. «Ritengo che sia importante continuare a parlarne per consolidare una consapevolezza collettiva del genocidio, ma credo che chi l’ha vissuto in prima persona non debba limitarsi alla conservazione della memoria. Srebrenica è un segno indelebile che porterò sempre dentro di me, e che entra inevitabilmente anche nella mia scrittura. Ma quando la sfioro e la nomino, mi accorgo che la mia stessa percezione di quei fatti è cambiata. Per fortuna sono riuscita a rielaborare il passato, cercando di non farmi pietrificare da quell’orrore».