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VERSO LA MOSTRA. Bachschmidt: «Svelo in un film le ferite del G8»

Luca Pellegrini giovedì 18 agosto 2011
La vita può cambiare. Ma gli ideali rimangono. È quanto successo a molti dei ragazzi che, nel luglio del 2001, furono coinvolti nei fatti del G8 di Genova, divenuti un emblematico caso di umanità offesa e di democrazia malata. Dieci anni sono passati e l’architetto genovese Carlo A. Bachschmidt decide di ricordare e ritornare nella sua città, testimone ieri e regista oggi, scrivendo e dirigendo Black Block, un documentario sui quei fatti insanguinati che sarà presentato alla Mostra di Venezia nella sezione Controcampo, forse riaprendo ferite, forse sanandole. Come è nato il suo progetto cinematografico?Dalla mia esperienza di consulente tecnico per gli avvocati di parte civile. Ho seguito per dieci anni i processi del G8, così ho potuto conoscere anche tutte le parti offese, legate alle violenze avvenute nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. L’intenzione di dirigere un documentario che ripercorresse questi dieci anni è nata dopo la sentenza di primo grado del 2008. Ho individuato sette giovani, provenienti da Germania, Spagna, Francia, e chiesto la loro disponibilità. Mi sono concentrato sui loro traumi: quelli subiti durante il G8, quelli dovuti al loro rientro a casa e poi al ritorno a Genova in occasione dei processi.Che cosa l’ha colpita di più di questi ragazzi?Il coraggio nell’affrontare il loro passato. Hanno tutti vissuto per tre anni con il peso di essere indagati per un reato gravissimo: associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Nel 2004 hanno deciso di costituirsi parti offese e sono tornati a Genova per raccontare quei quattro giorni di incubo. Le deposizioni sono state molto forti, soprattutto quelle dei tedeschi. La sentenza di primo grado, quella che ha visto assolti tutti i funzionari e condannati solo i poliziotti, mi ha convinto che era necessario raccontare tutto ciò che, durante il processo blindatissimo, non era stato divulgato. Quale tipo di collaborazione ha chiesto ai sette giovani?Li ho voluti intervistare collocandoli in una stanza che in qualche modo fosse la più astratta possibile. Lì hanno iniziato a raccontare il loro viaggio nella notte della Diaz, fino all’espulsione dall’Italia, passando o per l’ospedale o per Bolzaneto. Poi ho inserito delle immagini, tutte in esterni, di loro a Genova: sono quelle del ritorno dopo i processi e le sentenze, dunque la riconquista di uno spazio che in qualche modo era loro dovuto. Altro materiale utilizzato è quello di repertorio, per ricordare i fatti. Ho scelto poi uno tra i sette ragazzi, Muli, di Berlino, per conoscere le motivazioni per le quali venne a Genova e che cosa visse e vide esattamente in quei giorni. Non pare proprio che Lena, Niels, Chabi, Mina, Dan, Michael e Muli siano dei Black Block. Perché allora ha scelto questo titolo?È provocatorio, ricorda il motivo per il quale queste persone sono state arrestate. Infatti, la perquisizione alla Diaz avvenne perché la polizia credeva di aver individuato proprio lì il covo dei Black Block. Al tempo stesso il titolo rimanda alla violenza, solo che io parlo di quella subita dai manifestanti. Il mio è un racconto molto personale, molto intimo, non si fa mai riferimento ad alcuna motivazione politica, se non a quella di Muli.Alla città di Genova e all’Italia cosa è rimasto del G8?Sono rimaste delle persone che hanno vissuto sulla propria pelle una repressione violenta. Sono rimasti i processi che hanno ricostruito soltanto in parte i fatti, mentre sono rimaste inascoltate le richieste di alcuni esponenti della società civile che in questi anni hanno chiesto risposte rispetto alle responsabilità politiche di allora, che non hanno mai fatto i conti con quanto è successo. E guardi che faccio riferimento a entrambi gli schieramenti politici.La vita dei ragazzi, così come emerge nel film, è cambiata dopo l’esperienza genovese?È questa la parte che mi interessava di più: la reazione a fronte di un trauma così forte che incide profondamente nell’intimo e ti obbliga a dover fare i conti con un’esperienza che ti porta a essere disilluso. Non c’è dubbio che il processo li ha profondamente cambiati, prima di tutto perché hanno ritrovato una ragione alla tanta sofferenza vissuta in quei giorni. Per loro è stata una scelta fondamentale: non tanto per mandare in carcere i funzionari e i poliziotti che li hanno pestati a sangue, ma per una restituzione della verità, perché quelle cose che hanno vissuto finalmente qualcuno le stava ascoltando e venivano credute. Vorrei che la loro esperienza potesse far crescere le persone e la democrazia.