Protagonisti. Morvillo, non solo la signora Falcone ma toga per gli ultimi
Francesca Morvillo e Giovanni Falcone
Una donna in toga, tra le prime in Italia. Una magistrata minorile attenta all’importanza dell’educazione per togliere manovalanza alla mafia. Una donna sensibile che trova parole di conforto per mogli e madri degli uccisi dalla criminalità organizzata. Una ragazza di buona famiglia che per amore lascia il primo marito e si lega a una delle toghe più in vista e più nel mirino di Cosa Nostra. Fino a morire con lui. Tutto questo è stata Francesca Morvillo. Ma poco si sa ancora di lei. Ricordata sì a ogni anniversario della strage di Capaci, ma quasi relegata nell’ombra proiettata dall’illustre consorte. In questo trentesimo anniversario dell’attentato di Capaci l’interesse su di lei si è risvegliato. Ne è prova il libro di Felice Cavallaro Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra( Solferino, pagine 304, euro 18,50). Il giornalista del Corriere della sera, esperto di mafia, inserisce il rapporto tra i due nel contesto più ampio della storia. I due si conoscono, infatti, nel 1979, anno in cui a Palermo matura «un terremoto all’interno del potere politico e nella relazioni sotterranee con la mafia», scrive Cavallaro. Una scia di morti che prosegue per anni: giornalisti, politici, magi-strati, poliziotti. Tanto che nell’estate dell’82 l’Ora, quotidiano nel quale Cavallaro ha esordito, raggiunta quota 100 omicidi, titola con un '1' seguito da due bocche di lupara a formare gli zeri. Al primo incontro, a Trapani, in casa di amici del marito di lei, ne seguono alcuni casuali, altri voluti. Lui le fa regali: una paperella di onice (oggetti che Falcone amava collezionare), poi un’altra, trovata sulla Fifth Avenue di New York. Poi Il nome della rosa. Lei gli aveva, infatti, suggerito di rilassarsi con un bel romanzo, quando lui le aveva detto di essersi letto le sue relazioni di lavoro, piene di proposte sull’importanza delle reti sociali per aiutare giovani e famiglie. Il corteggiamento, garbato ma insistente, va avanti e lei ne è turbata. Il fratello, magistrato nello stesso ufficio di Falcone, subodora qualcosa. Così come la collegaconfidente Silvana. Alla fine Francesca lascia il marito e inizia a costruire una vita (fatta di scorte, pericoli, ma anche momenti felici) con il suo Giovanni. Non facile per l’educanda con il cerchietto sui capelli che il padre, severo magistrato, non faceva uscire la sera perché troppo pericoloso. Per la maestra che andava a fare il doposcuola a quei ragazzi del Cep e dello Zen («quartieri nemmeno degni di un nome vero», commenta). Laureata in Giurisprudenza a soli 22 anni, concorso in magistratura nel 1968, anno della morte del padre, alla prima udienza indosserà la sua toga. Ritroverà i ragazzi difficili alla sbarra a parlare di genitori 'in villeggiatura', cioè in carcere all’Ucciardone. Ma non per questo vanno chiamati delinquenti, rimprovera a un agente al Malaspina, il carcere minorile dove esercita la sua attività. Dalle pagine emerge, insomma, la sua sensibilità sociale. Come in uno dei primi incontri con Falcone, nel 1980, al centro 'Arrupe', dove padre Ennio Pintacuda lancia il movimento 'Città per l’Uomo'. Lì con Giovanni parla di ragazzini spariti, probabili vittime di una mafia sempre più spietata. «Che mondo è?», dice. «È il tempo che ci è dato da vivere, diceva Aldo Moro », risponde lui. «E noi possiamo cambiarlo? », incalza Francesca. «Quien sabe. Ma ci possiamo provare. Insieme». A quell’«insieme» lei trasale. «Cioè?», chiede. «Tutti insieme», si affretta a precisare Falcone cercando di dissimulare che quell’«insieme» significava «noi due». Eppure quel «tutti insieme» e l’inespresso «noi due» andavano di pari passo. Perché la coppia per oltre un decennio ha condiviso l’impegno a resuscitare la speranza di tutti i «palermitani onesti» che un cartello del 1983, appena assassinato il generale Dalla Chiesa, aveva dichiarato morta. Lui conducendo le sue indagini internazionali al cuore dell’economia mafiosa e gestendo al meglio i primi pentiti. Lei cercando di aiutare i ragazzi vittime della mafia, anche se esecutori di crimini. Due modi diversi di togliere acqua a Cosa Nostra. La svolta nella loro vita arriva dopo l’ennesimo attentato, il 29 luglio 1983. In via Pipitone salta in aria il magistrato Rocco Chinnici. Al suo posto arriva Caponnetto. Il resto è storia del pool antimafia. Ma alla macrostoria il libro intreccia la narrazione di vicende private e intime. Dopo il fallito attentato dell’Addaura nel 1989, tornata in città, Francesca lascia un foglio, vergato tra le paperelle dello studio: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore». Vivi, entrambi, lo sono rimasti nel cuore di tutti.