Calcio. Ciao Sinisa, guerriero dal cuore impavido
E adesso che Sinisa Mihajlovic è volato Lassù dallo zio Vujadin Boskov, che cosa possiamo dire? Che era il più forte centrale difensivo sbarcato da noi dai Balcani nei primi anni ‘90? Che aveva la grinta e il coraggio del cuore impavido, un Braveheart slavo, croato di Vukovar dove era nato 53 anni fa? Sì possiamo ripetere all’infinito che metteva tanto coraggio in campo, quanto nella vita di tutti i giorni. Ma tutto questo non consola e non ci riporta indietro il campione. E poi qui e ora dobbiamo piangere prima di tutto l’uomo, il padre di una squadra-famiglia meravigliosa, composta dai cinque figli: Virginia, Viktorija, Marco, Miroslav, Dušan e Nicholas. Allenatore di casa Mihajlovic, non era mica Sinisa, ma Arianna, la compagna di una vita e la prima alleata in quella battaglia, troppo breve, contro la leucemia. Arianna non ha mai lasciato un momento da solo il suo Sinisa e nel gioco di Instagram gli ricordava, specie nei momenti più duri dei ricoveri in ospedale: «I guerrieri si riconoscono da lontano. “My love”».
Il guerriero ora si è arreso a un nemico troppo forte, a quei mali che come insegna il suo amico anche di lotte, Gianluca Vialli: «Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me». E con quello stesso spirito, Sinisa stava affrontando quel male, che ironia della sorte, 35 anni fa, proprio il 16 dicembre (1987) pose fine alla vita da mediano di Bruno Beatrice. Altro cuore impavido del calcio (come lo juventino Andrea Fortunato ucciso dalla leucemia a 23 anni, nel 1995 e Flavio Falzetti, calciatore di C grande testimonial contro quel male). Una delle tante morti bianche del calcio, Beatrice si spense a 39 anni a seguito di uno scellerato ciclo di raggi Roentgen, quando militava nella Fiorentina degli anni ‘70, e da allora la moglie Gabriella e i figli Claudia e Alessandro, stanno aspettando una sentenza che rimetta al centro delle loro vite due parole come giustizia e verità.
Due concetti che Mihajlovic ha esercitato sempre nella vita di tutti i giorni, come sui campi di calcio. Era un vincente. A 22 anni con la Stella Rossa di Belgrado alzò al cielo la Coppa dei Campioni. Due scudetti in Italia, con Lazio e Inter, ma ora lo piangono tutte le tifoserie dei club in cui ha giocato e dove ha sempre lasciando il segno, al di là delle punizioni bomba e delle entrate decise da muro difensivo. Lo ricordano con immenso affetto, tutte le dirigenze delle squadre in cui aveva iniziato un ottimo cammino da allenatore. Così lo piangono Inter, Catania, Fiorentina, Milan, Samp, Toro e Bologna. Sotto le Torri, la sua ultima disperata tappa, conclusasi con un esonero a sorpresa nel settembre scorso. Una decisione quella del presidente Joe Saputo che adesso fa pensare a una resa condivisa. Ma resta anche l’atroce dubbio: continuare a lavorare nel mondo che amava di più, gli avrebbe allungato la vita? Solo da Lassù possono rispondere.
Quaggiù, la Chiesa bolognese ricorda e benedice Sinisa con le parole dell’arcivescovo Matteo Zuppi: «Di Mihajlovic mi hanno colpito la sua forza e sensibilità, la sua testimonianza nella prova e nella vita». In Sinisa «c’è qualcosa di grande» come canta Cesare Cremonini, tifoso del Bologna e Mihajlovic, quanto don Massimo Vacchetti, il sacerdote che nei giorni più bui della malattia aveva guidato mille tifosi rossoblù al Santuario di San Luca per pregare per la sua guarigione, ricordandogli: «Mister, resteremo legati a te». Aveva un cuore grande Mihajlovic, consapevole della fortuna che gli era toccata diventando un lavoratore privilegiato dei campi di pallone. Per questo rifiutava la retorica del «sacrificio», e del «mestiere non facile di calciatore», perchè ripeteva convinto: «Non è facile svegliarsi alle quattro e mezza della mattina per andare a lavorare alle 6, fare tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questo non è facile».
Sinisa non dimenticava mai le sue radici umili e quel suo Paese dove aveva assistito alla guerra fratricida dell’ex Jugoslavia. «Ho visto morire uomini, donne e bambini e non di malattia, ho visto amici e parenti scappare in cerca di un riparo e di un po’ di pace...». Ha pregato tanto Sinisa per la pace tra Russia e Ucraina e l’ha fatto in silenzio, al buio della sua stanza, portandosi dietro una sofferenza grande, che è la stessa che ogni giorno devono affrontare i leucemici più piccoli del Bambin Gesù di Roma, del Chianelli di Perugia, del Gaslini di Genova o gli adulti, come lui, del San Gerardo di Monza fino al Sant’Orsola di Bologna. E ci scusiamo ancora una volta con tutti quei centri specializzati non citati e che fanno “miracoli” per tenere in vita tutti quegli angeli feriti e anche quelli caduti in volo. Ecco, qualcosa rimane Sinisa, l’ultima punizione contro l’hai trasformata in un gesto di attenzione per tutti quelli da sempre in lotta, come te. E per tutto questo, cuore impavido Mihajlovic, rimarrai nei nostri cuori, per sempre.