Parigi. Morto Milan Kundera, scrittore tra gloria e segreti
Milan Kundera
Nell’anno in cui morì Stalin – era il 1953 e la Cecoslovacchia si trovava sotto il comunismo più ferreo –, Milan Kundera diede alle stampe il suo primo libro di poesie. S’intitolava Clovìk, zahrada širá, “Uomo vasto giardino”, e raccoglieva testi scritti tra il 1949 e l’anno di pubblicazione, alcuni di timbro più polemico altri al limite del banale; il libro era l’omaggio di un giovane poeta alla figura di Stalin: «Sempre più in alto, sempre più con Stalin / dietro a lui verso il tempo futuro», recita un verso di quei componimenti. Milan Jungmann, importante critico letterario morto a Praga nel 2012, ripensando a quei tempi scrisse: «Clovìk, zahrada širá suscitò un appassionato dibattito e la terza raccolta di Kundera, Monology (1957), ebbe l’effetto di un tornado sulla letteratura ceca… Oggi – continuava Jungmann severo –, rileggendo questa poesia banale, ci meraviglieremmo che allora ci stimolasse tanto e che ci desse la sensazione magica di un’opera d’arte eccezionale. Ma dimostra solo quanto fosse penoso lo standard della poesia ceca…».
Le poesie di quegli anni, che Kundera definì l’epoca dell’Idillio, ovvero, diremmo noi, dell’infatuazione ideologica, non sono mai state tradotte, né in Francia né altrove, e Kundera ha fatto di tutto per nasconderle. Oggi che lo scrittore moravo (e non boemo, come a lungo si è ripetuto: era nato nel 1929, il 1° aprile, a Brno) è morto a Parigi all’età di 94 anni, il nascondimento e, a volte, l’ambiguità che ha caratterizzato la sua vita anche quando arrivò in Francia nel 1975 – aiutato da intellettuali cone François Furet e Pierre Nora, che gli fecero ottenere una cattedra (ed ebbe tra i suoi allievi anche Houellebecq) –, sembrano inumati per sempre dentro una sorta di stanza iperbarica dove il mondo è escluso, conta solamente l’universo fittizio che Kundera ha costruito attorno a sé, come un mausoleo, con la sua opera letteraria.
A dire il vero, fu lui a ripetere più volte che non l’autore deve trovare l’immortalità, ma la sua opera. E quando parlo di mausoleo non gioco con una metafora immaginifica, ma mi rifaccio a quel monumento a se stesso che Kundera ha costruito curando i due volumi della Pléiade che, usciti nel 2011, raccolgono le opere secondo l’autore meritevoli si sopravvivergli e, al posto di una biografia dell’autore, presenta un florilegio di citazioni tratte dai suoi libri sotto il titolo C’est l’oeuvre qui parle. Non solo scelse ciò che doveva finire nei due tomi, ma ritradusse tutto ciò che aveva scritto in ceco e riscrisse anche le traduzioni in francese che avevano eseguito altri e di cui non fu quasi mai contento. Molti hanno visto con sospetto questa operazione, ma la traduzione è un argomento fondamentale della teoria letteraria di Kundera, il quale già nel 1967, al Congresso degli scrittori cecoslovacchi, notò che «a conti fatti, le più grandi personalità letterarie del secolo precedente la Montagna Bianca erano traduttori,.. è attraverso la traduzione letteraria che i cechi hanno fondato la loro letteratura europea nella lingua ceca e che la letteratura ha formato lettori europei che leggono il ceco». La precisione lessicale come fondamento di una cultura, si potrebbe dire. Ma lo scrittore aggiune anche: «la letteratura ceca è molto poco aristocratica; è una letteratura plebea fortemente legata al suo ampio pubblico nazionale». La lingua come anima della nazione, insomma. Nel 1983, in una delle ultime interviste prima di tacere per sempre, Kundera individuò gli effetti del comunismo sovietico nella negazione della nazione attraverso l’epurazione dell’intellighezia ceca.
Gli ultimi quindici o vent’anni di Kundera sono stati un tempo del silenzio e della misantropia. La moglie Vera, che a lungo fu la sua manager letteraria, ha spiegato questo nascondimento del marito così: «è come un vecchio indiano che teme di essere derubato della sua anima». Sull’indiscrezione dei giornalisti che facevano la posta davanti alla loro casa a Parigi per cercare di rompere quell’isolamento, parlando con la giornalista di “Le Monde” Ariane Chemin, Vera ha dichiarato: «Quei cani da fiuto dei giornalisti dovrebbero essere impiccati». Una frase che ricorda la franchezza impietosa e sferzante con cui Louis-Ferdinand Céline accoglieva i giornalisti che si recavano alla sua casa di Meudon dopo la guerra. Di fatto, Kundera ha mostrato verso i giornalisti occidentali, colpevoli secondo lui di travisare il senso delle sue parole, la stessa irritazione con cui biasimava gli spioni del regime sovietico che dal 1968 cominciarono a tenerlo d’occhio istituendo vari dossier. Così Kundera, dalla Primavera di Praga in poi, ha patito, in modo tutto sommato meno violento, ciò che altri oppositori del regime hanno pagato col carcere o con la vita, per esempio Havel e Patocka anche dopo la partenza di Kundera per la Francia.
Dopo il 1968 lo scrittore si era fatto portatore di una idea di socialismo dal volto umano. Ciò a Mosca naturalmente non piaceva. Verrà così poco alla volta privato degli incarichi universitari, i suoi libri saranno rifiutati e la moglie Vera perderà l’impiego nella tivù di Stato. Per sbarcare il lunario Milan farà anche il tassista e scriverà oroscopi sotto pseudonimo. Eppure, secondo un altro scrittore ceco oggi novantaduenne ma molto in vista all’epoca, Ivan Klima, Kundera godeva di privilegi dettati dal «suo status di enfant chéri, di figlio prediletto, del regime comunista fino al 1968».
Quando era cominciata questa liaison ideale col comunismo sovietico? A sedici anni, nel 1945, Milan legge approfonditamente Marx e due anni dopo si iscrive alla gioventù comunista. Ricordando il colpo di Stato del 1948, organizzato da Mosca, Kundera nel 1981 dirà al quotidiano “Liberation”: «anch’io esaltai la Rivoluzione». E tre anni dopo a “Le Monde des Livres” spiegherà che «il comunismo mi ha affascinato tanto quanto Stravinskij, Picasso e il surrealismo». Lungo gli anni Cinquanta, anche dopo la morte di Stalin, Kundera gode di una certa fiducia: insegna Storia della letteratura mondiale e “teoria del romanzo” alla facoltà di cinema di Praga, dove tiene anche un seminario sulla sceneggiatura. Quando nel 1963 si svolge a Praga un congresso dei critici letterari comunisti per “riabilitare” Kafka – Mosca considerò quel simposio il germe della Primavera – Kundera non sarà tra i relatori (eppure Kafka è stato uno dei capisaldi della sua teoria del romanzo), però nello stesso anno ritira il premio intestato a Klement Gottwald, il capo del comunismo ceco, esecutore zelante della ratio staliniana con purghe e assassini.
Ci sarà da fare luce su quegli anni di Kundera, che egli in tutti i modi cercò di epurare dal suo passato. Nel 2020 il critico ceco Jan Novák ha editato una monografia di 900 pagine sugli anni cechi dell'autore di L'insostenibile leggerezza dell'essere, dove, insinuando vari dubbi, scrive che negli anni 90 a Parigi Kundera si fece prestare dal suo editore, Gallimard, un tritadocumenti e «distrusse tutti i suoi manoscritti, testi inediti, tutti i radiodrammi e le sceneggiature televisive (che aveva venduto sotto il nome di qualcun altro a Praga durante la “normalizzazione” neostaliniana degli anni 70), tutti i suoi taccuini e tutta la sua corrispondenza». Il filosofo Alain Finkielkraut, un estimatore di Kundera, si dice convinto che Milan e Vera abbiano distrutto anche la corrispondenza fra di loro».
Che cosa potrà mai esserci di così imbarazzante? Nel 2008 venne alla luce un documento conservato nell’archivio dei Regimi totalitari che accusava un giovane di nome Milan Kundera di aver denunciato nel 1950 un ceco al servizio degli inglesi come spia, tale Miroslav Dvorácek. Si parlò di Kundera delatore, era vicina la Buchmesse dove si doveva presentare l’ultimo suo libro: gran clamore e sospetti a non finire. Troppi dettagli sembravano collimare, persino luogo e data di nascita del “delatore”. È l’inizio della lenta “morte” di Kundera che da allora perde di fatto anche la possibilità di ricevere un Nobel per cui era da tempo dato come papabile. Ed è l’inizio anche di un allontanamento della Francia da Kundera, in parte già iniziato con le critiche dei recensori ai suoi ultimi romanzi, dall’Identità alla Festa dell’insignificanza (Philippe Sollers scrisse che «i suoi libri ci guadagnano in traduzione»).
Di fatto Kundera ha vissuto la parte finale della sua vita come l’ebreo errante. Se nel 1977 il regime gli aveva tolto la cittadinanza, ecco però che il 28 novembre 2019 Praga gliel’ha restituita, e l’anno seguente gli ha conferito il premio Kafka. L’affaire del 2008 aveva fatto disperare i coniugi Kundera nella riconciliazione coi cechi. Gli ultimissimi anni sono stati duri per Kundera, causa anche una frattura al femore e forse una malattia. Lo scrittore è morto a Parigi ieri, dove in realtà è sempre meno amato, e non ha fatto tempo a rimpatriare, come ultimamente desiderava. La storia ha certe sue maligne fatalità.