Letteratura. Addio a Toni Morrison, prima donna afroamericana a ricevere il Nobel
Toni Morrison (Ansa/Ap)
Il presidente Obama l’ha definita «tesoro nazionale» e Tony Morrison è certamente per l’America una specie di simbolo della parità dei diritti fra bianchi e neri. Il suo pensiero si potrà approfondire in autunno quando uscirà L’importanza di ogni parola, antologia che raccoglie i suoi saggi degli ultimi quarant’anni su vita, società, letteratura. La pubblicherà l’editore Frassinelli, che in Italia ha pubblicato tutte le sue opere. Nel libro si troveranno dal discorso di accettazione del Nobel fino alla lettera ai caduti dell’11 settembre. Nel suo discorso di accettazione del Nobel, la Morrison spiega, con parole semplici ma fondamentali, che cosa le stia più a cuore nel suo lavoro e quale sia lo scopo fondamentale della sua scrittura. Racconta una vecchia storia, una leggenda legata alla sua infanzia: una vecchia saggia è interpellata per decidere sulla vita o la morte di un piccolo uccello. Saranno le sue parole a decretarne il destino. E Morrison commenta: «La nostra vita e il suo valore sono definiti dalle nostre parole, dall’importanza che diamo a ogni parola».
Quando nel 1993 le viene assegnato, prima donna afroamericana a riceverlo, il Premio Nobel per la letteratura, lo stesso anno in cui Nelson Mandela riceve quello per la pace, Toni Morrison, nel suo discorso all’Accademia di Svezia, non parla direttamente di sé, ma lo fa attraverso un suo alter-ego, una figura simbolica di forte impatto morale, quello di una vecchia cieca e saggia, figlia di schiavi, nera, americana, alla quale affida una sorta di parabola, quella della difesa della lingua e del linguaggio come identità, «mezzo per cogliere il significato, per fornire una guida o per esprimere amore».
In quel discorso Toni Morrison, scomparsa all’età di 88 anni, a New York, dopo una breve malattia, già indicava il senso del suo essere scrittrice, l’importanza che per lei rappresentava la scrittura: «Intessere parole è sublime, perché è generativo, ha un significato che fissa la nostra differenza, la nostra differenza umana: il modo in cui siamo dissimili da ogni altra forma di vita. Noi moriamo. Questo potrebbe essere il significato della vita. Ma mettiamo al mondo il linguaggio. E questa potrebbe essere la misura delle nostre vite».
Per lei questo è stata la convinzione più profonda, quella che illumina la sua opera, ma anche il senso di una letteratura come quella afro-americana, alla quale ha dato visibilità, che ha contribuito a illuminare in tutto il suo valore, una letteratura che ha avuto grandi maestri dimenticati per anni, come ad esempio James Baldwin.
In realtà si chiamava Chloe Anthony Wofford ed era nata a Lorain, in Ohio, da una famiglia nera appartenente alla classe operaia, il 18 febbraio 1931 e aveva compiuto studi universitari, vista la sua predilezione per l’ambito letterario e in università aveva lavorato per alcuni anni. Nel 1965 approda alla casa editrice Random House di New York come editor, curando le opere di diversi autori afroamericani e diventando anche una delle voci critiche più importanti di questa cultura.
L’esordio letterario è del 1970 con il romanzo L’occhio più azzurro, che racconta la storia di una bambina nera il cui sogno è quello di assomigliare ai bianchi, con un forte e emblematico desiderio: avere gli occhi azzurri come Shirley Temple. Non è un caso che il suo ultimo romanzo, Prima i bambini, uscito in traduzione italiana, nel 2015, da Frassinelli che pubblica le sue opere nel nostro paese, disponibili anche in un Meridiano Mondadori, curato da Alessandro Portelli e con l’introduzione di Marisa Bulgheroni, riprenda proprio i temi della sua opera d’esordio, in modo ancor più drammatico e provocatorio. Se quella bambina voleva assomigliare a Shirley Temple, perché come ha detto la Morrison «crede a quello che il mondo, dei bianchi ma anche dei neri, dice di lei», quarant’anni dopo la scrittrice sostiene la necessità di trovare una forza maggiore: «Oggi lo sforzo che ci è richiesto è diverso: smettere di sentirsi vittime».
Lo fa raccontando la storia di una donna nera, che diventa manager di successo, ma deve fare i conti con le ferite dell’infanzia, con le incomprensioni e le vergogne dei suoi genitori, con la necessità di accettare la propria identità, uno dei temi cardine della sua opera. La madre così spiega il suo atteggiamento, un eccesso di protezione, che diventa ferita esistenziale: «Non sono stata una cattiva madre, però può darsi che certe volte abbia ferito la mia unica figlia perché dovevo proteggerla. Dovevo. Tutta colpa dei pregiudizi legati al colore della pelle. All’inizio non sono riuscita a guardare oltre tutto quel nero per capire chi era e volerle bene e basta».
Sono due romanzi che aprono e chiudono un percorso che si sviluppa attraverso libri di grande forza morale, che sostengono la necessità di una presenza che non è solo letteraria, ma diventa anche sguardo sul mondo, sulla società, sulle proprie responsabilità personali. Tra le sue opere maggiori ricordiamo Il canto di Salomone (1977), un romanzo di formazione, in bilico tra il reale e il fantastico, in cui la storia, i sogni, i desideri, il mito e le tradizioni sviluppano un’epica vicenda corale che ha per protagonista una famiglia afroamericana del Michigan, in un arco temporale che va dagli anni trenta fino agli anni sessanta del Novecento. Al centro troviamo il percorso a ritroso intrapreso dal primogenito, Macon "Milkman" Dead, alla ricerca delle proprie origini e di un presunto tesoro di famiglia. Anche se presto il suo viaggio si trasforma in un percorso nel labirinto dell’anima, per trovare la propria, perduta, identità.
Dieci anni dopo, nel 1987, pubblica Amatissima, con cui vince il prestigioso Premio Pulitzer, dedicato agli oltre sessanta milioni di schiavi morti durante il "Middle Passage", la traversata dell’Atlantico compiuta dalle navi negriere. La Morrison prende lo spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1855, di cui trova notizie mentre sta curando un’antologia di documenti di 300 anni di storia afroamericana e racconta la drammatica storia di una donna, Seth, schiava fuggita al Nord dai suoi padroni, per raggiungere la madre di suo marito e i suoi figli, lasciati in custodia alla vecchia Baby Suggs, schiava che ha trovato la libertà. Con un terribile segreto che fa di questa storia un romanzo duro e straziante, non solo sulla condizione dei neri, ma anche sugli affetti personali.
È un romanzo che dimostra, insieme agli altri della scrittrice, da Sula (1972) a Jazz (1992) fino a Paradiso (1999), pochi autori hanno saputo come Toni Morrison rendere giustizia ai dimenticati dalla storia, agli schiavi, agli umili, ai perdenti traendo ispirazione dalle creazioni verbali e musicali dei neri d’America, intrecciando realtà e magia, miti, leggende e memorie della cultura afroamericana e di come abbia scritto osservando un preciso punto di vista: «Mi interessava la rappresentazione dei neri attraverso la cultura piuttosto che attraverso il colore della pelle».
Lo sottolinea anche nell’ultimo breve libro di saggi, uscito lo scorso anno, L’origine degli altri, quando afferma: «Ci sono innumerevoli occasioni di rivelare la razza in letteratura, che se ne sia consapevoli o no. Ma scrivere letteratura non colorista sui neri è un compito che ho trovato insieme liberatorio e difficile».
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