Agorà

Cinema. Moretti, una speranza oltre il dolore

Alessandro Zaccuri martedì 14 aprile 2015
L’infermiera che entra e dice: «Signora, ancora cinque minuti». Il vasetto di yogurt rimasto aperto con il cucchiaino appoggiato dentro, il camice sterile da indossare per entrare in terapia intensiva. E i buchi di memoria, i ricordi falsi che sembrano veri, le parole che non corrispondono più al loro significato. La madre, professoressa di lettere, che dice “sciacqua” al posto di “stanca” o “blando” al posto di “in bianco e nero”. Sempre elegante, sempre dolce e puntuale, perfino nell’errore. Mia madre di Nanni Moretti (nelle sale da giovedì 16 aprile) è un film di piccole cose, di dettagli che si riconoscono al volo. Basta avere – o aver avuto – un padre, una madre, un nonno o una zia da visitare in ospedale. Un film generazionale, come tutti quelli che Moretti ha diretto e interpretato fin dai tempi ormai lontani di Io sono un autarchico (1976), solo che intanto, e finalmente, la sua generazione è diventata adulta. Splendidi sessantenni, o giù di lì, che davanti alla morte dei genitori scoprono di essere loro, adesso, gli adulti. Passano in prima linea. Non rinunciano alle nevrosi, però imparano a tenerle a bada.E le nevrosi à la Moretti, in effetti, in questo film ritornano tutte. Dal cinema nel cinema (c’era già in Sogni d’oro e nel Caimano, per esempio) all’incomunicabilità (e qui, forse, basterebbe ricordare Ecce Bombo), dal mistero della relazioni familiari (era uno dei temi portanti, neppure troppo dissimulati, di La Messa è finita) all’elemento autobiografico, ingombrante da sempre e apertamente tematizzato in Caro diario e Aprile. A dominare è, in ogni caso, lo scandalo e il rovello del lutto, con il quale Moretti già si era misurato all’epoca della Stanza del figlio (2001), senza tuttavia rinunciare del tutto all’uscita di sicurezza che, in modo più o meno ironico, la psicoanalisi ha sempre offerto ai drammi e ai paradossi del suo cinema.Ecco, a ben vedere la vera novità di Mia madre sta proprio qui: questo è il primo film in cui Moretti sembra essersi lasciato la psicoanalisi alle spalle. Interiorizzandone motivi e soluzioni, ma non avvertendo più la necessità di esibire la barba del dottor Freud o il bugiardino degli psicofarmaci. Per ottenere questo risultato Moretti ha scelto di sdoppiarsi: sullo schermo è Giovanni, il figlio che per accudire la madre malata rinuncia a tutto, perfino al lavoro, ma una parte di lui vive nella sorella dell’uomo, la regista Margherita (Margherita Buy), impegnata a girare un film di dichiarate e probabilmente eccessive ambizioni sociali nelle stesse settimane in cui la morte della madre si avvicina sempre di più. La vera protagonista è lei, la metà femminile di questo autoritratto frammentario, ma Moretti per impersonare Giovanni si spoglia di ogni vezzo intellettualistico. È un uomo che conosce il dolore, semplicemente. E con semplicità dice: «Solo un goccio» mentre versa un po’ di vino nel bicchiere della nipotina, Livia (la giovanissima Beatrice Mancini), che invece dal dolore, quello vero, non è ancora stata sfiorata.Attori tutti bravi, tutti in parte, ma due interpretazioni si stagliano rispetto alle altre. Una è quella di Giulia Lazzarini nel ruolo di Ada, la madre cardiopatica, il centro assente intorno al quale ruota il racconto. Seguire l’indecisione dei suoi sguardi e l’improvvisa spavalderia dei suoi sorrisi significa ricordare quali meraviglie può fare una grande attrice di teatro quando la macchina da presa si mette al suo servizio. L’altro pilastro è costituito da John Turturro nei panni del divo americano arrivato a Roma per partecipare al film nel film che Margherita si sta sforzando di completare. Tocca a lui sostenere il controcanto comico di un film che rischierebbe altrimenti di scivolare nella malinconia. Turturro è l’attore che vuole parlare italiano anche se non lo sa, che finge di conoscere il copione anche se ha problemi di memoria, che è capace di sfuriate memorabili e di tenerezze strazianti. Si finisce di ridere per una sua bizzarria e subito la scena si sposta altrove, magari in casa di Ada, con la visione incongrua degli scatoloni già ammassati dopo la sua morte. Perché Ada alla fine muore, questo è inevitabile, ma il ricordo con cui si congeda da Margherita è quello di una sera in ospedale, con la figlia che le chiede: «Mamma, a che cosa pensi?» e lei che, nonostante tutto, risponde: «A domani». Quattro anni fa, nel 2011, avevamo lasciato Moretti alle prese con il dubbio paralizzante su cui si chiudeva Habemus Papam: che fare se anche il balcone di piazza San Pietro rimane vuoto? L’eredità di una speranza che, nella sua umanità, è già più che umana rappresenta oggi una soluzione che merita rispetto e nella quale molti, credenti e non credenti, potranno rispecchiarsi. Perché “domani” è, per tutti, la parola che sconfigge la morte.