Il restauro. Monza, la cappella di Teodolinda torna agli antichi splendori
venerdì 16 ottobre 2015
L'oro rifulgente dei broccati, delle
cinture scintillanti di pietre preziose, delle corone. Il verde
tenero dei prati, il manto bruno dei cavalli, le tante diverse
sfumature di carminio, azzurro, verde e vaniglia delle vesti.
Dopo quasi sei anni di minuziosi e sapienti restauri tra
pazienti colpi di pennellino e nanotecnologie torna splendere
nel Duomo di Monza la Cappella di Teodolinda, capolavoro
quattrocentesco firmato dalla celeberrima bottega degli
Zavattari.
Un'opera nata per strabiliare i contemporanei, come spiega la
responsabile del restauro Anna Lucchini, che rifulgeva per
l'incredibile esuberanza dei suoi colori disseminati nelle 45
scene che compongono il racconto, riempiendo di pitture circa
500 metri quadri di superficie. Con le vesti che agli occhi dei
contemporanei dovevano sembrare "dei veri broccati lucidi e
cangianti come la seta", le pellicce usate per le bordure degli
abiti così soffici da far venire la voglia di toccarle, i manti
dei tanti cavalli dipinti pelo per pelo per renderli il più
possibile vicini alla realtà. Tutto insomma doveva sembrare
reale e splendido come lo era la Corte dei Visconti e degli
Sforza, che aveva commissionato il lavoro. Una meraviglia
eseguita con una tecnica incredibilmente preziosa e nello stesso
tempo fragilissima che il passare dei secoli e purtroppo anche
di una serie di restauri sbagliati o eseguiti con tecniche non
adeguate (il primo nel 1714, l'ultimo negli anni '60 del
Novecento) avevano rovinato moltissimo, in qualche caso senza
ritorno.
Il restauro conservativo, finanziato con poco meno di 3
milioni di euro in gran parte da mecenati privati (in primis la
Fondazione Gaiani che ha coordinato l'intervento, con il World
Monuments Fund, la Marignoli Foundation, la Regione Lombardia e
la Fondazione Cariplo) è riuscito nel miracolo di togliere il
nero e far rifiorire i colori, dai verdi dei prati ai rossi e
agli ori di certi broccati, persino l'argento delle lance, con
il nastro rosso che le avvolgeva. "Ciò che apprezziamo e vediamo
- spiega la restauratrice - sono le stesure di base, le
preparazioni sui cui i pittori della bottega Zavattari stesero
per pennellate, a volte corpose a volte trasparenti, uno strato
di 1 o 2 millimetri di colore definitivo che non c'è più,
eliminato, abraso da puliture troppo drastiche eseguite dai
restauratori inconsapevoli dei secoli passati". Il lavoro
certosino e paziente della squadra di restauratrici ha puntato
quindi a mettere in sicurezza le pitture, che erano danneggiate
e in grande pericolo. E a conservare le velature rimaste
riportando alla luce anche tanti frammenti dai quali ancora oggi
si può leggere la meraviglia di un tempo. Sono riemerse così le
tracce dei broccati, dei damaschi, delle fiandre di cotone, le
impronte dei finti marmi, quelle degli scoiattoli e delle lepri
che popolavano il prato alla fiamminga. Un lavoro lungo e
meticoloso, portato avanti con metodi tradizionali e nuove
tecnologie, a seconda delle necessità.
Il risultato è stupefacente: "Ovviamente non è più quella del
1400 - sottolinea Franco Gaiani, presidente dell'omonima
fondazione - ma l'impatto è emozionante, tanti colori che non si
riconoscevano più sono tornati a splendere". I ponteggi, spiega,
sono stati tolti in primavera. E per completare il lavoro è
stata installata anche una nuova illuminazione di assoluta
avanguardia, tutta a led, di cui non si vede la sorgente.
Domenica l'inaugurazione, poi via di nuovo alle visite, che per
forza di cose devono essere contingentate (gruppi di 25) e su
prenotazione.