Totalitarismi. Monumenti: dittatori in fotocopia
Il monumento non è un orpello, un arricchimento esteriore del totalitarismo. Ne costituisce una delle fibre più profonde, fa parte della sua essenza, tanto che non c’è regime che non abbia generato una propria arte e una propria architettura monumentali. Che si assomigliano come gocce d’acqua, come mostra la ricognizione Memorie di pietra. I monumenti delle dittature curata da Gian Piero Piretto e in uscita oggi per Cortina (pagine 270, euro 25,00).La storiografia sta progressivamente affermando in maniera sempre più esplicita quanto gli elementi di vicinanza tra i totalitarismi novecenteschi siano maggiori delle differenze ideologiche. Rossi o neri, hanno condiviso gran parte delle forme storiche, delle manifestazioni esteriori, delle architravi ideologiche. Su tutte, il tratto fondamentale: l’ideologia come religione, il Partito come Chiesa, il Capo come Messia. Un tratto perciò simil-liturgico o, meglio, uno scimmiottamento della liturgia, con proprie regole e riti, non già volti alla salvezza dell’umano, ma alla sua dannazione in terra attraverso la radicalizzazione dell’anti-umano. Il monumento totalitario è la manifestazione di questo nichilismo, e al tempo stesso uno dei mezzi che lo affermano: perché con le sue caratteristiche è fatto apposta per schiacciare l’individuo, annullarlo nell’indistinta massa che il totalitarismo alimenta e plasma. Ne è controprova il fatto che, all’indomani della caduta di una dittatura, la prima cosa che fanno gli ex sudditi è proprio scendere in piazza a distruggere i monumenti. Il 25 luglio 1943 l’Italia ha coralmente abbattuto busti di Mussolini e fasci littori, alla caduta del Muro è toccato alle statue di Lenin e ai monumenti inneggianti all’Armata Rossa “liberatrice”.Il monumento totalitario è colossale e anti-umano, come colossale e anti-umano è il regime che lo genera. L’uomo non c’è, se non in due accezioni ugualmente alienanti: o il Capo, enorme, spropositato, letteralmente incommensurabile, o l’Uomo Nuovo del regime, il milite ignoto, l’eroe del lavoro: simboli, non uomini.Il Duce progettato da Renato Ricci avrebbe dovuto essere alto 86 metri, surclassando qualsiasi altri colosso. Non fu realizzato, ma intanto il mondo si è riempito di immani Stalin, Lenin, Kim Il-sung, Kim Jong-il, Mao. Perfino alle tropicali latitudini di Cuba campeggiano tuttora le gigantografie in metallo di Castro, di Che Guevara e degli altri “eroi della rivoluzione”. Trasfigurati in icone statiche, come lo Stachanov riprodotto innumerevoli volte in Unione Sovietica, omaggio e insieme memento del “compagno” perfetto.Più spesso, nell’arte monumentale totalitaria, il riferimento alla figura umana scompare. Intersecandosi con le correnti artistiche coeve, dal futurismo al razionalismo, i regimi elevano costruzioni, sempre immense, dove le forme vengono esaltate nella loro purezza geometrica. Ricorre lo slancio verticale, dall’Obelisco Mussolini del Foro Italico a Roma al Monumento ai cosmonauti di Mosca. Ricorre la massa immane che sfugge alla misura dell’occhio umano, dal Parlamento di Bucarest alla cupola del Palazzo del Reich progettato da Albert Speer per Berlino. Ricorre la reinterpretazione del passato per appropriarsene, dal Mausoleo di Lenin incastonato nella barocca Piazza Rossa di Mosca alla fascistizzazione dei Fori Imperiali a Roma. Ricorre la riduzione dell’individualità a forma astratta, dal muro in mattoni con falce e martello che Mies van der Rohe ideò per il Monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg di Berlino nel 1926 ai gradoni del Sacrario di Redipuglia di Giovanni Greppi (1938).Il monumento totalitario predilige la pietra, ad attestare la solidità e l’immortalità dell’ideologia e del regime. Ma forse la sua espressione più compiuta si ha nei fugaci “monumenti umani” costituiti dai raduni di massa, dove migliaia di figuranti perfettamente sincronizzati (e non importa se al passo dell’oca a Norimberga o nella coreografia inneggiante a Mao a Pechino) impersonano, letteralmente, il popolo nuovo forgiato dal regime. Di archi di trionfo, stendardi, luci, fiaccole, parate restano soltanto testimonianze fotografiche. E anche i monumenti in pietra, “eterni” come i tanti Reich millenari sognati dai loro autori, ma ugualmente effimeri, svaniscono non appena il regime s’incrina, abbattuti dalla furia popolare oppure ordinatamente rimossi dai nuovi governi. Come nella celebre sequenza del film Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker: la statua di Lenin, imbragata e appesa a un elicottero, volteggia sopra la Berlino del dopo Muro, con il suo indice puntato che non addita più il sol dell’avvenire, ma aleggia a vuoto sopra strade e palazzi.