La storia di arte e cultura che raccontiamo in questa pagina comincia in qualche modo dalla notte in cui il Paradiso è sceso al mare. Erano le prime ore del 22 marzo scorso, inizio dell’ennesima giornata di pioggia (perché da queste parti i giorni in cui piove li contano tutti, dopo quello terribile che portò all’alluvione e ai morti dell’ottobre 2011) quando il gigantesco muro di pietra che sorreggeva il giardino pensile del Convento dei Cappuccini a Monterosso, nelle Cinque Terre, è sceso verso il mare insieme a centinaia di metri cubi di terra, tagliando in due il paese. Da sempre quel fertilissimo giardino era conosciuto come "il Paradiso dei frati", posto come era in alto sul mare, esposto a sud, affacciato sul golfo: uno dei paesaggi più belli e famosi del mondo. Quella mattina di marzo i monterossini si sono svegliati senza Paradiso e senza un pezzo essenziale della loro storia, anche religiosa e affettiva. Ma, come spesso capita in località ad elevatissima vocazione turistica come questa, le ragioni del cuore sono state subito accantonate: il problema essenziale era fare in modo che il borgo ritornasse al più presto fruibile per le migliaia di visitatori di ogni giorno. Così anche il problema storico-religioso-sentimentale (nonostante sia fra le basi delle ragioni paesaggistiche di tanto turismo), è passato, per le autorità locali, in secondo piano. Il problema è stato scaricato sulle spalle dei frati, che si sono (giustamente) dovuti preoccupare della necessaria messa in sicurezza della strada che collega il centro storico con la più recente località di Fegina (dove sorge la casa di Montale) e, sempre a spese loro, della ricostruzione del muro, che si concluderà nei prossimi mesi dopo la (turistica) pausa estiva. «Non abbiamo ricevuto un centesimo da nessuna istituzione pubblica, né dal Comune, né dalla Regione. Dobbiamo anzi pagare i danni», sottolinea padre Renato Brenz Verca, responsabile del convento. «Dopo il primo smarrimento, non avendo le disponibilità per coprire gli oltre 500 mila euro necessari per ripristinare il muro e il giardino pensile, oltre a garantire la sicurezza dell’intero convento, abbiamo messo in campo una serie di iniziative culturali per raccogliere fondi e ci siamo rivolti alla generosità dei privati. Ci sono anche una pagina facebook e un sito internet ("Ripariamo il Paradiso di Monterosso") con i necessari riferimenti. Per i familiari e i defunti di coloro che partecipano a questo sforzo garantiamo ogni giorno le nostre preghiere e il ricordo nella Santa Messa». Preghiere garantite, in particolare, per alcune parrocchie lombarde, come quella di San Zeno a Brescia, «che dopo aver molto contribuito nell’emergenza dell’alluvione, hanno continuato a starci vicino e in concomitanza della festa di San Francesco, stanno organizzando per il 6 ottobre prossimo una grande festa in piazza». E padre Renato non manca di annotare di aver invitato per una visita al convento anche Papa Francesco, «che è di origini liguri e a Buenos Aires andava spesso a pregare sulla tomba del missionario padre Antonio Durante, cappuccino di Monterosso (con altri sei fratelli), venerato in Argentina come un santo. Qui in questo convento è nata la sua vocazione francescana e qui a Monterosso sono sepolti i suoi genitori».Dicevamo dello stretto e spesso dimenticato nesso fra insediamenti umani, edifici storici e religiosi, paesaggio e attrattività turistica. Ebbene, ciò che pochi sanno è che quel muro caduto il 22 marzo si ergeva sulle fondamenta della trincea esterna del Castrum Obertengo, che è a tutti gli effetti la più antica costruzione sul mare (ancora esistente) di tutte le Cinque Terre e le cui pietre originarie, con i rifacimenti stratificati dei secoli successivi, sono in parte tornate alla luce con la frana. All’interno di ciò che resta del castello vero e proprio insiste oggi il cimitero (con la cappella Montale che conserva i resti dei genitori di Eugenio) e la chiesa di San Cristoforo, edificata lì dove era la prima chiesa del paese, voluta dal marchese Guido I, figlio di Adalberto II degli Obertenghi, fondatore del castello più o meno intorno alla prima metà dell’XI secolo. Il convento dei cappuccini, col suo "Paradiso", venne edificato secoli dopo, a principio del 1600, quando una durissima contesa fra fazioni monterossine, giunta a coinvolgere l’amministrazione genovese (al punto che il Senato della Superba aveva ordinato l’invio al confino in Corsica dei rispettivi capi-fazione) venne sanata dall’intervento di alcuni frati cappuccini. La comunità di Monterosso pensò di ringraziarli donando all’Ordine il terreno prossimo al castello per costruirvi un convento. La prima pietra fu posta nel 1619 e i lavori ultimati nel 1622, così che nel 1623 il vescovo di Sarzana e Luni, monsignor Giovan Battista Salvago, poteva consacrare la chiesa dedicandola a Francesco d’Assisi. L’importanza dei lavori, promossi da alcune famiglie nobili genovesi, è attestata dalla quasi certa presenza a Monterosso in quei mesi del giovane Antoon Van Dyck, che fra il 1621 e il 1622 si trovava nella città della Lanterna al servizio, probabilmente, delle medesime famiglie, per tornarci fra il 1626 e il 1627 dopo un lungo tour in svariate città italiane. È noto, infatti, che il grande fiammingo allievo di Rubens abbia affinato in Italia le sue doti di ritrattista, che lo resero pittore di grande successo anche alla corte britannica. Risultato di quel soggiorno monterossino è la stupenda e intensa crocifissione, pala d’altare di una cappella laterale nella chiesa del convento. Nel 1780 Carlo G. Ratti attestava la presenza, nella stessa chiesa, anche di un presepe attribuito Van Dyck. Opera che è andata perduta (con altre tele di altri artisti descritte da Ratti) con tutta probabilità fra il 1810 e il 1816 in seguito alla confisca napoleonica, quando la struttura divenne sede di una guarnigione. A peggiori conseguenze avrebbe condotto la successiva confisca operata nel 1866 dal neonato Regno d’Italia, quando i frati vengono cacciati con la forza. Negli anni che seguono la chiesa viene prima adoperata come magazzino per il pesce salato ed essiccato, e poi è utilizzata come ricovero per gli operai impegnati nello scavo delle gallerie e nella costruzione dei ponti della linea ferroviaria Torino-Genova-Roma, che passa sotto la montagna e attraversa il paese. I frati potranno tornare solo nel 1894. Oltre al Van Dyck e all’originale altare seicentesco in legno, nella chiesa compaiono oggi alcuni ottimi dipinti realizzati a inizio ’700 da Giuseppe Palmieri, un cinquecentesco "San Gerolamo" di Luca Cambiaso, e due dipinti di inizio ’600 di Bernardo Strozzi e di Bernardo Castello.