Russia 2018. Il ciclone del nazionalismo balcanico soffia sui mondiali di calcio
Il calciatore svizzero Xherdan Shaqiri di origini kosovare celebra il 2-1 contro la Serbia mimando l'aquila della "Grande Albania" il 22 giugno 2018 ai Mondiali di Russia (Ansa)
Segnali assai poco pacifici da Russia 2018. La politica entra in campo e va subito in fuorigioco. Nel Mondiale più politicizzato della storia si segnala anche il “ciclone dei Balcani”. In questa prima fase gli slavi, Croazia e Serbia, «i brasiliani d’Europa» secondo l’occhio esperto del “Profeta” Giovanni Galeone, confermano le loro immense capacità tecniche, ma anche quell’innata e spregiudicata voglia di accendere nuove mine nazionaliste.
Vedi l’esultanza del bomber tascabile della Svizzera, Xherdan Shaqiri al gol vittoria sull’odiata Serbia di Milinkovic-Savic. Come il collega e “connazionale” Xhaka (autore della rete del pareggio), anche Shaqiri ha mimato l’aquila a due teste simbolo dell’Albania e reso felice Behgjet Pacolli, il ministro degli esteri del Kosovo che alla vigilia su Twitter aveva scritto: «Spero tanto che gli albanesi- kosovari sconfiggeranno la Serbia». Missione compiuta.
Entrambi i gioielli svizzeri che hanno mandato ko la Serbia hanno infatti origini kosovare. Shaqiri addirittura è arrivato in Svizzera da bambino dopo essere nato nella città di Gjilan. Anno 1991. Proprio quello dell’inizio del quadriennio, 1991-’95, di sangue e terrore (con effetto finale e collaterale nello scontro bellico del 2001 nella Repubblica di Macedonia) nella ex Jugoslavia.
Nei giorni in cui la Croazia di Modric e Manndzukic veleggia a punteggio pieno, dopo aver ridicolizzato l’Argentina di Messi, e con la Serbia che pecca di superbia (pardon per la rima) ma è ancora in corsa per gli ottavi, giova ricordare a tutte le memorie labili, oltre a quelle di cuoio - compresa quella di Shaqiri (per quell’esultanza scomposta ora è nell’occhio del ciclone e al vaglio del giudizio della Fifa), che quella guerra fratricida trovò il primo campo di battaglia proprio su un terreno di gioco.
I serbi della Stella Rossa e i croati della Dinamo Zagabria accesero la miccia dell’odio etnico una domenica della primavera del 1990. Ma la scintilla fu sfregata premeditatamente una sera gelida e ferale del febbraio 1989 (nove mesi prima del crollo del Muro di Berlino), «Quando Arkan varca i cancelli dello stadio Marakana di Belgrado, dove gioca la Stella Rossa, fa un tempo da lupi. Nevica, ma alcuni tra i Delije stanno soltanto aspettando il loro capo per incoronarlo re», scrive Diego Mariottini nel suo prezioso saggio Dio, Calcio e Milizia. Il comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia (Bradipolibri)
Arkan, al secolo Željko Ražnatovic ex «rapinatore di talento» con precedenti e arresti eclatanti in Svezia e in Olanda, è la feroce Tigre che, nella Curva Nord dello stadio di Belgrado, aveva fissato il suo quartier generale e il centroreclute per entrare nelle schiere dei “Delije”: il famelico gruppo ultrà già noto in tutta Europa per via delle loro scorribande in stile “Arancia meccanica”. Uomini addestrati non solo per scontri e caos da stadio, ma programmati per uccidere. Sciacalli al servizio del folle Željko, diventeranno le feroci “Tigri di Arkan”, guerriglieri sanguinari alla conquista della «morente Jugoslavia, in cui il calcio sarà il catalizzatore della fine».
E l’inizio della fine porta appunto la data del 13 maggio 1990: la trasferta di Zagabria nella tana della Dinamo e degli odiatissimi ultrà dell’opposta fazione, i Bad Blue Boys. Le immagini di quegli scontri, a colpi di spranghe e razzi che con i seggiolini delle tribune volano sul terreno di gioco trasformandolo il prato in campo di battaglia, faranno il giro del mondo. Dalla Curva degli ultrà serbi (circa tremila) si alzò funesto il grido: «Uccideremo Tudman!», ovvero Franjo Tudman, l’uomo dell’indipendenza croata - fresco vincitore dalle elezioni politiche di quel 6 maggio a capo del suo partito Hdz -, l’antagonista dell’allora leader dei serbi, Slobodan Miloševic.
Il fermo immagine di quell’assurda partita però rimarrà il calcione sferrato dal capitano della Dinamo, Zvonimir Boban, un colpo non per indirizzare il pallone nella porta avversaria ma sul sedere di un agente di polizia che stava picchiando un sostenitore della sua squadra. Per quell’entrata “a gamba tesa” l’altrettanto morente federcalcio jugoslava sospese Boban per nove mesi, ma il suo gesto di resistenza gli valse la medaglia d’onore e l’encomio di «eroe nazionale», anche se il calciatore (poi stella del Milan berlusconiano) minimizzò: «Semplice reazione a un’ingiustizia».
Dall’ingiustizia alla banalità del male il passo è più brevilineo di quello di Modric. E mentre Arkan andava alla guerra con al seguito le sue truppe rimpolpate di ultrà sanguinari, gli Arkanove Delije, la Stella Rossa di Belgrado al San Nicola di Bari alzava al cielo la Coppa dei Campioni (battendo il Marsiglia) e poi salendo sul tetto del mondo nella sfida di Coppa Intercontinentale vinta contro i cileni del Deportivo Colo-Colo.
Arkan e la sua milizia intanto fotografavano e esponevano come trofei le loro vittime: hanno massacrato chiunque incontravano sui territori della Bosnia-Erzegovina e in Croazia. Al loro passaggio spalancavano varchi all’esercito regolare serbo e fecero riaprire i cancelli dei lager in Europa.
Tutto ciò non può averlo già dimenticato il ct serbo Mladen Krstajic, il quale alla richiesta di un commento riguardo l’esultanza di Shaqiri a fine gara ha tagliato corto: «Io mi occupo di sport, le questioni politiche non mi interessano». Salvo poi lasciarsi andare a un atomico ripensamento: «Sfortunatamente, solo i serbi sono stati condannati da una giustizia selettiva: prima il maledetto tribunale dell’Aja e oggi dal Var».
Un ordigno dialettico quello innescato su Instagram dal ct serbo capace di paragonare un errore arbitrale - discutibile - alle sentenze del Tribunale internazionale delle Nazioni Unite che negli anni ’90 fu chiamato a perseguire i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. E il tutto per esprimere il suo disappunto per la direzione di gara dell’arbitro tedesco Brych che non avrebbe concesso un rigore su Aleksandar Mitrovic.
Il centravanti serbo, classe 1994, non era ancora nato quando le Tigri di Arkan si aggiravano tra le case ridotte a macerie, cadaveri sparsi, bambini abbandonati e donne violentate per le strade e i campi della penisola nostra dirimpettaia. E nessuno, probabilmente, neanche il ct Krstajic, a lui e ai suoi compagni della Serbia ha raccontato che in quel tempo assurdo e di guerra si continuò comunque a giocare a pallone. Soltanto quando si prese atto dell’impraticabilità di un campionato jugoslavo unico iniziarono a delinearsi le federazioni e i rispettivi tornei nazionali degli attuali stati indipendenti di Serbia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Montenegro e poi Kosovo. La nazionale di calcio della Jugoslavia di fatto si sciolse alla vigilia degli Europei del 1992, in quanto «indesiderata». Al suo posto vi prese parte la Danimarca, che da ripescata scriverà pagine da favola calcistica vincendo il titolo continentale.
Questa è storia, e a nostro avviso giova ribadire fatti, nomi e situazioni drammatiche che vanno ben al di là dell’ambito calcistico. Da allora, in campo e soprattutto fuori, nulla è stato più lo stesso nella ex Jugoslavia. Ma lo spettro dei nazionalismi non è mai stato debellato del tutto. E nella Russia di Putin è tornato prepotente, come quei venti freddi che in Svizzera spirano anche d’estate.
Nella Svizzera da sempre neutrale, le forze destrorse che ora brindano e portano in gloria i rossocrociati di Shaqiri, in realtà non gradiscono che nella loro nazionale la presenza di calciatori di pura “razza elvetica” - come il sette volte campione d’Italia con la Juventus Stephan Lichtsteiner - rappresentino la minoranza. La Svizzera in campo parla l’albanese e tutte le lingue slave. Come del resto il suo ct Vladimir Petkovic, autorevole e intellettualmente elevato stratega della panchina.
Il poliglotta ex Lazio Vlad, classe 1963, era un ragazzo quando la sua Sarajevo bruciava e con la famiglia si era trasferito in Svizzera. Ma Petkovic conosce bene la storia e sa che quella guerra, tra civili e soldati bosniaci, croati, serbi e altri caduti, fece circa 95mila vittime. Pertanto se si è veri uomini di sport, al pressing delle provocazioni si risponde solo con i fatti sul campo di gioco. Mentre le nostalgie nazionaliste e i folli attacchi totalitari vanno respinti o ancora meglio calciati via, ben oltre la tribuna di uno stadio
© RIPRODUZIONE RISERVATA Calcio Un accostamento a dir poco imbarazzante che alza un ulteriore polverone A sinistra: il bomber svizzero di origine kosovara Xherdan Shaqiri. Al centro: il ct serbo Mladen Krstajic. A destra: il fantasista della Croazia Luka Modric