Storia. Molotov-Ribbentrop, il patto chiave che ha segnato tutto il Novecento
La firma del patto Molotov-Ribbentrop nel 1939, alla presenza di Stalin
Tutta la storia è storia contemporanea. Lo si è detto e ridetto, fino alla noia. Lo dicono anche molti che in realtà non ci credono. Certo però, quando si parla di cose successe tra 1938 e 1941 e con un riflesso fortissimo sulla storia di questi giorni (con la Conclusione che si apre addirittura con la citazione di un saggio del 2022 tirato in 50.000 copie e firmato da Vladimir Putin), si è portati a commentare che “più contemporanei di così…” eccetera. Stiamo parlando di Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia (Il Mulino, pagine 275, euro 22,00) di Antonella Salomoni.
Specialista di storia sovietica e russa, docente nell’Università della Calabria nonché in quella di Bologna dove insegna Storia della Shoah e dei genocidi, Salomoni era già famosa per un libro edito dal Mulino nel 2001 nel quale, a una decina di anni dal crollo dell’Unione Sovietica, si faceva finalmente il punto su quel che allora (e anche adesso…) era un continente sconosciuto, l’Urss, parlando del rapporto tra ideologia e congiuntura al suo interno. Passato prossimo o passato-che-non-passa? Forse abbiamo corso un po’ troppo, illudendoci che fosse poi così facile voltar pagina. Personalmente avvicinerei quel saggio, che a suo tempo ho molto apprezzato (sono un vecchio studente dell’università Lenin di Mosca, anno accademico 1970), a un romanzo scritto però da uno storico – peraltro principalmente medievista –, Romanzo russo (1998) di Alessandro Barbero. Si tratta di due lavori che, riletti insieme oggi, fanno una certa impressione.
Ora, Antonella Salomoni torna nelle librerie con un nuovo saggio, non lunghissimo ma molto denso e al solito impeccabilmente documentato (48 pagine fra Note e Indice su 275 in totale) su un tema scottante e imbarazzante. Un impium foedus, come si diceva tra medioevo ed età moderna quando si voleva indicare un patto segreto infamante tra due parti che avrebbero dovuto essere solo avversarie, ad esempio tra un paese cristiano e uno musulmano. In realtà, di impia foeda del genere se ne sottoscrivevano parecchi, specie nella Spagna della Reconquista o nella Palestina delle crociate; oppure – e sono i più celebri di tutti – tra la Francia di Francesco I o del Re Sole (quindi, nei secoli XVI-XVIII) e il sultano d’Istanbul.
Ma nella storia contemporaea l’impium foedus per eccellenza è quello stipulato a Mosca il 23 agosto del 1939 tra il ministro degli esteri della Germania nazionalsocialista, Joachim von Ribbentrop, e il suo omologo sovietico, Vjaceslav Michajlovic Molotov, in presenza di un Josif Stalin che le foto dell’evento inequivocabilmente ci mostrano allegro e soddisfatto, sorridente come un bel gattone. Gli era abituale quel sorriso affabile, fra una tirata di pipa e l’altra: e molti rabbrividivano quando glielo vedevano comparire sotto i suoi celebri baffi.
L’oggetto del trattato, rassicurabile sul piano formale, era un “patto di non aggressione” fra due potenze che fino ad allora erano considerate cane e gatto e che ancora oggi sono, nel comune sentire di molti, sinonimo di due opposti estremismi: il fascismo nella forma che è in genere considerata la più efferata e il comunismo nella sua fase più feroce, la stalinista appunto.
Stanno proprio così, le cose? Oggi siamo in fondo abituati a sottolineare anche le affinità tra i due regimi se non tra le due ideologie, e a unirli sotto il medesimo comun denominatore del “totalitarismo”. Peraltro, quanto meno sul terreno cinicamente da entrambi considerato “sperimentale” della Guerra civile spagnola, fra ’36 e ’39, le due parti erano state le principali in conflitto tra loro: ed era stato un massacro indescrivibile. Difatti, fu Winston Churchill, che certamente non simpatizzava né per nazismo né per stalinismo, definì il “patto di non aggressione” germano-sovietico un “atto innaturale”.
Ma il punto era proprio questo: era davvero tale? In fondo, gesti di distensione tra Berlino e Mosca (come tra Mosca e Roma: Mussolini era stato il primo capo di governo europeo a riconoscere formalmente il governo sovietico) ce n’erano stati parecchi: e perfino collaborazioni, sui piani tanto commerciale e industriale quanto addirittura militare. E poi, si trattava in realtà – come fu chiaro una settimana circa dopo la forma – di un patto teso a dividere le zone territoriali d’influenza in una futura (e quanto vicina!) spartizione del territorio polacco. Si parla di “spartizioni della Polonia” e si è obbligati a riflettere tristemente che “la storia di ripete”, dalla fine del Settecento alla metà del Novecento.
Ma come si era potuti arrivare a questo, nell’agosto del ’39? Molte cose un po’ semplicistiche sono state dette. Da una parte, Hitler preparandosi a strappare Danzica alla Polonia e non potendo scartare l’ipotesi (in effetti verificatasi) di una reazione da parte di Gran Bretagna e soprattutto Francia, intendeva coprirsi le spalle a oriente per evitare di venir preso tra due fuochi (che poi scegliesse qualche mese dopo di mettersi da solo in quella condizione, è un altro discorso: e una cosa non facile da capire); dall’altra, è stato fatto notare come dopo i trattati di Monaco del ’38, che sembravano aver sistemato le cose tra Germania nazista e potenze liberali d’Occidente a spese della Cecoslovacchia, Stalin – deluso e sentendosi tradito, dopo anni di cobelligeranza sovietico-anglofrancese in Spagna – aveva preferito il “vecchio nemico” Adolf ai “quasi amici”, i rispettabili signori di Londra e di Parigi.
E si tratterebbe di storia sempre affascinante e sempre ricca di punti da chiarire, se non ci fosse di mezzo qualcosa ch’è stato causa di ulteriore disorientamento. Già al processo di Norimberga era stato motivo di tensione tra i giudici e gli “avvocati di parte” alleati e sovietici la delicatissima questione del “Protocollo aggiuntivo segreto” ch’era stato firmato nella notte fra il 23 e il 24 agosto a Mosca e che riguardava la linea di demarcazione tra le zone d’influenza rispettivamente spettanti a Germania e a URSS bel caso che il loro patto avesse provocato reazioni polacche tali da indurre a un’occupazione militare di un territorio più ampio. La questione delle rispettive “sfere d’influenze” riguardava anche altri stati, quali Finlandia e paesi baltici. In pratica, Germania e Russia tendevano a porre le basi per una riappropriazione delle zone che l’una e l’altra avevano perduto tra ’17 e ’18.
Il fatto che di questo “Protocollo segreto” non fossero pienamente disponibili gli originali (bensì solo copie o rielaborazioni diplomatiche), e che – come quasi sempre accade nei trattati – alcuni espressioni fossero ambigue, contribuì a porre le basi della “Guerra Fredda”. Sullo sfondo, si profilava una grossa questione. La Seconda guerra mondiale era stata scatenata solo da Germania, Francia e Inghilterra oppure, fin dall’inizio, era quanto meno condizionata da una ferma volontà d’espansione sovietica? Ciò metteva in sott’ordine un altro imbarazzante problema morale: se davvero la posta del conflitto era l’appoggio alla Polonia aggredita, perché Francia e Gran Bretagna avevano finto di non accorgersi che la metà orientale di quel paese era stato occupata dai sovietici, in ciò evidentemente corresponsabili dei tedeschi?
A questo punto il Dipartimento di Stato americano, con il concorso dei suoi alleati, pubblicò nel 1948 una corposa raccolta di documenti nota come Nazi-Soviet Relations, 1939-1941: in essa era presente anche una copia o rielaborazione del “Protocollo segreto”, proveniente dalla collezione di un funzionario del ministero degli esteri tedesco, Karl von Loesch; e i sovietici risposero con un lungo documento dal titolo eloquente, Fal’sifikatory istorii (“I falsificatori della storia”), nel quale si accusavano gli alleati di aver gravemente inquinato e distorto il testo del “Protocollo”.
Nel clima della nuova “Guerra Fredda”, che sta ormai diventando quanto meno tiepida, il governo della nuova Russia – e personalmente Vladimir Putin – ha dato un’ulteriore prova di quella volontà di riallacciarsi alla continuità rispetto all’Urss ribadendo in un rinnovato aspro confronto la tesi sovietica di allora. Non faremo torto ad Antonella Salomoni e ai lettori di questo bel libro – al quale auguriamo la maggior fortuna possibile – squadernandovi il risultato della Conclusione: che ribadisce comunque da un lato l’inevitabilità e la fondamentalità della critica e della ricerca storica, ma dall’altro anche il loro carattere di “opera aperta”. Nessuna conclusione storica è mai conclusiva: neppure le più convincenti, e ciò non per colpa degli studiosi bensì per la natura stessa della storia che riserva continue sorprese. Ci sono due avverbi che quando si fa storia è vietato pronunziare: “sempre” e “mai”. La Verità, con la maiuscola, appartiene sempre a un indefinito futuro. Ammesso che la verità storica abbia davvero diritto alla maiuscola.