Musica. Mogol: l'arte di vivere in una canzone e nella preghiera
È forse il destino precipuo della poesia l’essere collocata a mezza altezza, fra cielo e terra. Esiste una parola greca che esprime alla perfezione questo stato in luogo intimamente lirico, metaxù, “a metà” tra il sensibile e il sovrasensibile. È il luogo intermedio occupato da Diotima nel Simposio. E non è un caso che la canzone d’autore, da sempre allineata ai maggiori temi della poesia, riprenda spesso tale fisica: si pensi a The Rising di Bruce Springsteen, tradotto come la “resurrezione” o, in modo più letterale, il “sollevarsi”. Cioè, non semplicemente risalire la china, ma essere risospinti alla luce, innalzarsi, guadagnare il punto ibrido del qui e dell’oltre. Uno dei più bei pezzi della musica leggera italiana non è altro che un’esortazione a raggiungere quel luogo privilegiato, capace di elevare l’intera esistenza, La collina dei ciliegi: «Ma perché tu non ti vuoi azzurra e lucente?», «e più in alto e più in là / ora figli dell’immensità». Per riprendere solo alcune preziose espressioni della canzone. La geolocalizzazione della donna, in accordo con la più fragrante tradizione poetica del nostro Paese è lì, in quello spazio sopraelevato.
L’uomo che ha dato parola ai modernissimi arrangiamenti di Battisti è stato da poco premiato, dal rettore Vilberto Stocchi, con il Sigillo d’Ateneo dell’Università di Urbino. Giulio Rapetti Mogol, celebre paroliere e discografico, nella sua briosa lectio magistralis sul pop e i suoi derivati, aveva evidenziato come «a differenza della musica classica, la canzone popolare cammini verso la vita. L’obiettivo di Elvis Presley era di far innamorare le donne. Faceva leva sulla loro percezione materna. Le commuoveva. E così rendeva credibili le emozioni messe in campo nella performance. Anche Sinatra ha chiuso il fraseggio nella gabbia di un dire più fluido, meno manieristico. Il cantato si è avvicinato, in questo modo, al parlato».
Le canzoni sue e di Battisti sembrano non invecchiare mai.
«Guardi, Battisti cantava come si canta nel mondo d’oggi. È la sua assoluta contemporaneità. Eppure a X Factor vincono ancora tenori che, con un urlo, spaccano le lampadine. Ma la misura è fondamentale nell’arte. Da parte mia ho cercato, sin dagli inizi, di capire dove stesse andando il pop, quali vie percorresse. E ho iniziato a seguire, poeticamente, quella strada. Mi sono relazionato sempre alla vita quotidiana della gente, alle sensazioni soggettive, alle mie esperienze. Non ho mai fatto fiction. Ho cercato di osservare cosa mi stava accadendo intorno, tenendo gli occhi fissi sul “senso” della musica. Se una frase può dire certe cose, non può dirne di altre. Allora, è necessario essere precisi. Bisogna trovare la maniera giusta di esprimere i sentimenti».
Qual è la poetica di Mogol?
«Il mio modo di scrivere è cambiato dagli esordi. Ora mi dirigo sempre di più verso la vita, verso le sue contraddizioni, verso il significato delle cose. E scrivo in maniera estremamente sintetica. Ecco perché mi piace comporre aforismi: la sintesi è forse la base della poesia. Nella sintesi si riconosce, per così dire, l’afflato lirico. L’ultimo testo che ho scritto, per una ragazza di sedici anni, è brevissimo. Lo manderò a Sanremo, perché lei è straordinaria. Le poesie lunghe perdono sempre qualcosa, si sfilacciano per strada. Non sono taglienti, non restano nella mente. La lunghezza non è la forma della poesia. A quest’analisi resiste solo Dante».
E quali sono state le sue letture? Quali autori l’hanno influenzata di più?
«Sono un lettore onnivoro. In giovinezza ho avuto una lunga infatuazione per Steinbeck. Hemingway è stato un vero maestro. E ho letto a lungo i poeti americani del primo Novecento, Edgar Lee Masters in primis, da cui ho appreso l’immediatezza espressiva. Della nostra tradizione mi hanno influenzato le rime di Dante, gli idilli di Leopardi e alcune liriche di Montale».
In Rinascimento, uno dei suoi ultimi testi, vuole “cercare qualche cosa di puro”. È ancora possibile nella società di oggi?
«È sicuramente possibile per gli adulti. La purezza, il legame con la spiritualità, sono cose che appartengono all’essere umano di ogni tempo. In ogni caso, bisogna cre- derci. E certamente dovremmo fare in modo che ai giovani sia fornito questo esempio, affinché possano immergersi ancora nella bellezza e nello splendore di ciò che è puro».
Vede un suo successore in giro?
«Non esistono successori. Il mio non è un trono che, un giorno, dovrò lasciare. Ovviamente ci sono in circolazione bravi autori che sono arrivati o arriveranno meritatamente al successo. Nel Cet (Centro europeo di Toscolano, ndr) che ho fondato in Umbria oltre venticinque anni fa ci sono corsi altamente qualificati per autori, compositori e interpreti. Dalla nostra scuola sono usciti ottimi autori, già affermati. E continueremo a farlo».
E ora la fatidica domanda: la canzone è poesia?
«Se Dylan non avesse cambiato il modo di cantare, forse non avrebbe meritato il Nobel per la letteratura. Con lui entrò in atto una vera e propria frattura tra ciò che è stata la canzone e ciò che è ora. Lui ha avvicinato il pop alla coscienza vera della poesia. In Like a rolling stone, ad esempio, è cinico, arrabbiato. Parla. Interpreta. Sputa sentenze. Chiude le frasi, contro lo strascico che apparteneva ai suoi predecessori. È decisamente sulla via della recitazione, della parola “detta”. E in più mette in gioco un sentire che è personale, ma nel quale tutti possono immedesimarsi».
Le manca Battisti?
«In settembre saranno vent’anni da quando Lucio ci ha lasciati. E, può immaginare, ormai mi sono abituato al fatto che mi manchi. Ma lo ricordo sempre con immenso affetto».
Qual è il suo rapporto con la spiritualità?
«Io prego, ho la fortuna di accedere a una relazione quotidiana con il Signore».