Linguistica. L'italo-romanesco lingua del potere. Così si promuove il populismo
«Ragà, arzateve pure voi». Queste parole in romanesco Giorgia Meloni ha bisbigliato (udibilmente) il 26 giugno scorso nell’aula della Camera ai suoi vice premier – Antonio Tajani e Matteo Salvini – che erano rimasti seduti mentre diversi parlamentari si erano alzati ad applaudire, durante la commemorazione del bracciante indiano Satnam Singh, morto qualche giorno prima in un atroce incidente agricolo nell’agro di Fondi. Non è la prima volta che Meloni viene fuori, anche in circostanze formali, con formule romanesche più o meno strette, e del resto parecchi parlamentari del suo partito (come il ministro-cognato Francesco Lollobrigida) fanno liberamente lo stesso.
In gennaio, in chiusura di una conferenza stampa di fine anno, dinanzi a una vasta platea di giornalisti di vari Paesi, Meloni si era lasciata sfuggire, sempre con un bisbiglio: «Sto a morì, ragà», spiegando subito, ad alta voce, di cosa si trattava: «Signori, io devo andare in bagno, non so come fa’, vi giuro che vorrei farcela per altre tre domande… ma, posso? che devo fa’, scusatemi», e lasciando il palco con una corsetta di visibile urgenza. Il 2 giugno scorso, in Campania per inaugurare una piscina insieme al presidente della Regione Vincenzo De Luca, Giorgia ha superato sé stessa: «Buongiorno» ha detto a De Luca, «sono quella stronza della Meloni». È vero che in effetti stava ripetendo sarcasticamente il rozzo epiteto che de Luca aveva affibbiato a lei in febbraio, ma la battuta, del tutto inedita nella storia politica italiana, è sembrata ugualmente non poco urtante.
Sto citando le uscite verbali meloniane più recenti. Ma tutta la sua carriera di capo del governo è costellata di battute e intercalari romaneschi più o meno sboccati e plebei, che si sommano a comportamenti irrituali, tra il siparietto e la provocazione. Hanno fatto il giro del mondo le immagini in cui, in parlamento il 21 marzo scorso, Meloni si nasconde platealmente il capo tirandosi su la giacca, per sottrarsi agli «occhi inquietanti» (così da lei definiti) di Angelo Bonelli, oratore (dell’opposizione) di turno. Un’altra delle sue corde sono evidentemente le danze e i balli: nell’agosto 2022, in un comizio a Bari, sola sul palco accennò una piroetta danzante rispondendo al pubblico che la acclamava ritmicamente. La stessa scena si ripeté ad Ancona nell’agosto 2023, e nel giugno scorso mezzo mondo l’ha vista abbandonarsi a diversi giri di “pizzica” in una festa serale al margine del G7 da lei stessa organizzato a Torre Egnazia, in Puglia. Qualcuno può osservare che anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri non perde occasione per far sentire come se la cava con la chitarra, strumento che anche Elly Schlein ogni tanto suona in pubblico (un po’ meglio di Gualtieri, a dire il vero), ma tra la chitarra e l’annuncio che si ha bisogno di andare in bagno c’è una differenza, anche se tutti questi sono forse segni di un nuovo codice di comportamento in pubblico dei personaggi politici. Del resto, il linguaggio pubblico italiano è stato del tutto rivoluzionato (come documenta con abbondanza di dati Michele A. Cortelazzo, La lingua della neopolitica. Come parlano i leader, Treccani, pagine 248, euro 19,00) almeno a partire dall’esordio di Berlusconi, autore di innumerevoli uscite a dir poco irrituali.
In ogni caso, la misura del cambiamento quale lo si osserva in Giorgia Meloni è di gran lunga la più elevata che si sia vista finora. Questa dismisura pone delicate questioni di natura istituzionale e culturale. Se Meloni usa la sua marcata parlata nativa e assume comportamenti disinvolti in contesti pubblici anche solenni e internazionali, lo fa per diversi motivi. Certamente contano le sue radici, delle quali non discuto: proveniente da un ambiente di cultura semplice, con alle spalle una scuola professionale e un bagaglio di letture visibilmente esiguo, la presidente non si è staccata di molto dal suo patrimonio originario. Lei stessa, del resto, nel suo discorso di insediamento alla Camera (25 ottobre 2022), alludendo a un’origine modesta si definì “un underdog” (una “sfavorita”), che sarebbe però stata compensata con “un approccio meraki” (1° dicembre 2022; in neogreco, “pezzettino (di fortuna e di sforzo)”, termine che Meloni non ha mai più usato. È forse per questo limite originario che ha difficoltà a distinguere i livelli e le circostanze, i contesti e gli interlocutori: come si abbraccia stretto stretto Rishi Sunak invitato ad Atreju (15 dicembre 2023) non meno che altri leader internazionali, così dà amichevoli pacche sul braccio del Papa (12 maggio 2023) trattandolo quasi come un amicone.
La sua rappresentazione pubblica ha però anche precise ragioni politiche, la prima delle quali è l’appeal populista: Meloni parla (e balla) come farebbe chiunque del popolo, non solo perché di quel popolo è espressione diretta, ma anche perché vuole che il suo elettorato percepisca senza equivoci che lei è una di loro, cioè una (come si dice popolarmente a Roma) che «parla come magna». In effetti tra i suoi comportamenti in pubblico ci sono spessissimo uscite verbali di timbro popolaresco, mimiche facciali (di sbalordimento, di sorpresa, di incredulità, di sdegno) esagerate e quasi da fescennino, gesti caricati come nel teatro kabuki, toni forzatamente risentiti di invettiva contro questo o quello, sorrisetti d’intesa, e tutti i parafernalia oratori del capopopolo. Sfruttando le risorse della modernità, ha anche creato un video periodico dall’ironico titolo di “Telemeloni”, nel quale parla liberamente, di cose pubbliche e private, con il suo usuale italo-romanesco non temperato.
Mutatis mutandis, l’oratoria di Mussolini, che è stata studiata in modo approfondito, aveva caratteristiche verbali e gestuali non del tutto diverse. A quel proposito, Antonio Gramsci, descrivendo in diverse pagine dei Quaderni del carcere le proprietà che deve avere un capo, accenna anche ad alcuni caratteri del “capo demagogico” che si direbbero adatte anche al nostro caso: «Vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico)». In tutto ciò, Gramsci riconosce le tracce di quel “provincialismo folcloristico” tipico del nostro Paese, in cui gli stranieri ravvisano un certo «istrionismo italiano, una teatralità italiana, qualcosa di filodrammatico, quell’enfasi nel dire anche le cose più comuni…». Basta confrontare Meloni coi suoi omologhi francesi (Marine Le Pen e Jordan Bardella), formalmente composti anche nell’invettiva e nel fake, per percepire la distanza.
La differenza è che Meloni ha alle spalle la Costituzione repubblicana, che (articolo 54) impone che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Parlare romanesco in Parlamento, annunciare dinanzi a una platea internazionale che si ha bisogno di far la pipì, accennare passi di danza o perfino ballare a lato di incontri internazionali si possono considerare forme di “disciplina e onore”? o sono, all’inverso, manifestazioni non del tutto onorevoli di indisciplina istituzionale? Il problema, posto in questi termini, è serio e riguarda piuttosto i costituzionalisti che un commentatore come il sottoscritto.
Oltre che questioni istituzionali, però, il romanesco di Giorgia Meloni ci interpella anche sul terreno culturale. Come la sua idea di sostituire la parola “Paese” con “Nazione” si è più o meno forzosamente imposta (i media, anche quelli avversi, dicono ormai quasi solo così), del pari la sua parlata romanesca di livello medio-basso sta spingendo la “romanizzazione” già da tempo in corso del linguaggio pubblico e mediatico italiano. Capita più di una volta di aver bisogno di un dizionario (come il bellissimo Vocabolario del romanesco contemporaneo di Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi (Newton Compton, 2023) per cavarsela dinanzi a parole come anvédi, darsi una regolata, intortare, rosicone, strizza e tante altre. Più di un amico straniero mi ha fatto notare che chi segue i media italiani, sia audiovisivi che stampati, può aver l’impressione che la lingua ufficiale del Paese sia il romanesco. Il cinema italiano parla romanesco, la maggior parte delle trasmissioni televisive e radiofoniche nazionali, con l’eccezione di poche persone, parlano romanesco, il doppiaggio dei film ha spesso una forte nuance romanesca (specie quando a parlare sono i bambini)… Perfino chi romano non è (come Fiorello) si sforza di prodursi in italo-romanesco.
Il dialettologo Giulio Vaccaro ha proposto acutamente di considerare il romanesco «una sorta di metadialetto dell’italiano», un “romanesco de tutti”, visto che suoi elementi e frammenti ricorrono ormai nel linguaggio pubblico di tutte le parti d’Italia. Perfino la rapper milanese Myss Keta ha intitolato un brano Mortacci tua, “una delle bandiere di questo romanesco panitaliano”. Questa frase a Meloni non è ancora sfuggita, ma sarebbe singolare se, nella storia d’Italia (di questo Paese), dovesse esser ricordata più per il suo ruolo di “romanizzatrice” che per altro.