Agorà

Intervista. Van Reybrouck: MISSION in Congo

Lorenzo Fazzini venerdì 2 ottobre 2015
Con il libro Congo è diventato una star internazionale, vincitore del premio intitolato a Tiziano Terzani. Eppure David Van Reybrouck, giornalista classe 1971, archeologo di formazione (studi a Cambridge e Lovanio), belga di nascita e giramondo per vocazione, mantiene l’aplomb dell’eterno ragazzino curioso e imprevedibile. Ora i suoi interessi si concentrano sulla crisi della democrazia (a questo è dedicato il suo ultimo saggio Contro le elezioni. Perché non votare è più democratico, edito come il precedente da Feltrinelli). Al «Festival di Internazionale» in piazza Municipale a Ferrara interverrà oggi presentando Congo (ore 18.30) e domani sulla politica e le sue forme (10.30). Ma Van Reybrouck è anche il sorprendente autore di una pièce teatrale scritta nel 2007 e intitolata significativamente Mission. Un lungo monologo, ben documentato e a tratti struggente, di un missionario che rilegge i suoi 48 anni di impegno in Africa.Da dove nasce quest’attenzione per i missionari?«Mission è basata su 18 interviste che ho realizzato ad altrettanti missionari belgi in Congo, compresa una suora. Ho una visione diversa rispetto alla normale critica post-coloniale ai missionari: se è vero che nell’Ottocento e inizio Novecento facevano parte integrante dell’impresa coloniale (quando ad esempio si è operata la distruzione delle religioni locali), oggi questi religiosi vivono un rispetto molto maggiore verso le culture indigene».Dal suo scritto emerge anche qualcosa in più: padre Gregoire, il protagonista letterario del testo, sembra affascinare l’autore...«Sì. Quel che mi ha affascinato dei missionari è la domanda sulla loro idealità. Prendo un missionario che ho conosciuto di persona: è stato educatore in seminario, ma poi uno dei suoi studenti è diventato un signore della guerra; ecco: come è possibile, di fronte a situazioni del genere, mantenere fede ai propri ideali? Da questo punto di vista i missionari risultano veramente dei personaggi tragici nel senso alto del termine: vivono l’accettazione totale di quel che accade a loro e intorno a loro, ad esempio nel dramma di ebola».Sono tutti così i preti che ha conosciuto in Africa?«Nei missionari sui 50 anni ho trovato qualcos’altro: dubbi sulla fede, sul celibato, sulla stessa missione. Eppure, nonostante tutto, anche in certi momenti di disperazione, sono lì che lavorano. Questo "malgrado tutto" mi ha sempre interessato».Come è stata accolta «Mission»?«Molti piangono alla fine della mia pièce: forse perché nel mio lavoro ho sempre cercato una prospettiva di empatia: in Congo cerco di dar voce alla prospettiva dei congolesi, in Contro le elezioni do voce al proletariato, in Mission ho voluto dare legittimità alla vita religiosa di oggi, con una punta di ammirazione sebbene io sia ateo. Ho conosciuto missionari veramente coraggiosi, uomini e donne incredibili: preti che hanno perso un occhio per una pallottola, religiose che assistono ragazze violentate e che le trattano con una delicatezza impensabile. Camus diceva che bisogna essere santi senza Dio. È difficile, perché riconosco che la fede costituisce un supporto, una spinta in più a dedicarsi agli altri. Certo, ho conosciuto anche persone non all’altezza, dediti a qualche vizio, ma per lo più ho incontrato consacrati e consacrate eccezionali».Ritorno al Camus da lei citato. È possibile essere santi senza Dio?«Sì. Ma se una fede aiuta a essere più buoni, più compassionevoli e più solidali, trovo che sia molto positivo per la società. Ad esempio considero i giornali cattolici in Europa degli ottimi contributi culturali, gli ultimi capaci di resistere con indipendenza a vari gruppi di pressione. Sono giornali ben documentati, liberi e professionali. E se guardo all’islam, sono appena tornato dall’Indonesia dove ho trovato la prima scuola coranica per persone transessuali. Incredibile, non trova?».Cosa significa fare il missionario, secondo lei?«Quel che mi ha colpito di più, nelle definizioni che davano della propria vocazione i missionari che ho intervistato, sono due affermazioni: essere missionari è "avere tempo" e "lasciare che l’altro diventi quello che è chiamato a diventare". Fare il missionario oggi è essere là e incarnare, non imporre, una serie di valori attraverso il proprio modo di vivere. L’ho detto persino a parecchi diplomatici europei in Africa: imparate dai missionari come si fa ad avere a che fare con i popoli, guardate come anzitutto si mettono ad ascoltare la comunità».Nella parte finale del suo testo padre Gregoire dice a Dio: «Bisogna che tu pianga con noi». Papa Francesco ha più volte ricordato che si vede bene il mondo solo con il dono delle lacrime.«Da non credente amo molto l’idea di un Dio che possa piangere. Preferisco questa visione rispetto a una divinità possente che però non soffre. Di fronte all’eterno dilemma etico "Perché il male, se Dio è buono?", credo che l’immagine di un Dio altruista che soffre per l’uomo sia veramente bella».