Agorà

Arte. Il Cristo Giudice, corpo della misericordia

Andrea Dall'Asta domenica 4 dicembre 2016

Giudizio Universale, cattedrale di Chartres, portale sud, XII secolo (WikiCommons)

In che modo la misericordia è stata elaborata dalle immagini della fede cristiana? Quale il suo rapporto con la giustizia? Le domande sono al centro martedì di un convegno presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia Meridionale. Se tutta la vita di Cristo è all’insegna dell’amore del Padre e della sua misericordia che si manifesta sino al perdono rivolto a ogni uomo, non sorprende che le immagini della tradizione cristiana abbiano profondamente riflettuto su questo soggetto, strettamente connesso all’identità di Dio e alla sua rivelazione nella storia. Anche quando il soggetto non è esplicitamente dichiarato – come invece nel Figliol Prodigo di Rembrandt, nella tela de Le sette opere di misericordia di Caravaggio o ancora nell’episodio di Cristo e l’adultera di Lorenzo Lotto – costituisce di fatto la trama di fondo delle diverse immagini liturgiche. Se il mondo antico conosceva la pietas, vale a dire quel legame di profondo rispetto verso i genitori, la famiglia, la patria e gli dei – la pietas si identificherà con l’humanitas – la misericordia cristiana affonda invece la propria origine nella perfezione del Padre che è nei cieli: «Siate misericordiosi come il Padre vostro nei cieli», dice Gesù nel Sermone della Montagna. Dio è origine e fonte della misericordia. Nella misericordia, Dio rivela la sua perfezione.

C’è tuttavia un’iconografia che, forse più di altre, esprime molto bene questa riflessione teologica. È quella del Cristo Giudice, nata nell’Ile de France – splendido è il portale sud della cattedrale di Chartres (XII secolo) – per poi diffondersi ben presto in tutta Europa. Dal battistero di Parma a quello di Firenze, dalla cattedrale di Ferrara alla cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova, il Cristo Giudice, sia pure nelle diverse varianti e differenze, è ancora oggi di un’attualità sconcertante.

In queste immagini, la rivelazione di Cristo appare alquanto diversa rispetto a quella del Cristo Pantocratore della tradizione bizantina, come si presenta, per esempio, a Monreale. Nella cattedrale siciliana, collocato maestosamente nel catino absidale della chiesa, su di uno sfondo dorato, simbolo della trascendenza divina, il busto gigantesco di Cristo è avvolto in una tunica rivestita di un mantello. Il segno della sua sovranità è l’altezza. Con la mano destra alzata compie un gesto di benedizione, mentre con la sinistra regge il Vangelo aperto, simbolo della Rivelazione. Rappresentato frontalmente rispetto al fedele, si manifesta come il re dei re, Dio l’Onnipotente, l’Altissimo che siede nei cieli. Dalla sovrumana grandezza, il suo sguardo è nobile, severo e solenne. Sembra avere il potere di sospendere il tempo e lo spazio. La sua espressione esprime gravità e rigore. Cristo si presenta come un uomo barbuto che ispira saggezza, fermezza, solidità. I caratteri del suo volto, dai lineamenti severi e dalla espressione ferma e solenne, suggeriscono che il Verbo Incarnato è l’immagine del Padre. Come scrive Giovanni, «Dio nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato » (Gv 1,18).


Con il passaggio al gotico, Cristo, Signore dell’Universo, si fa sempre più umano, per presentarsi come un uomo reale, concreto. Si mitiga sempre più la dimensione soprannaturale. Si rivela ora un uomo tra gli uomini. Come nella lunetta di Benedetto Antelami del portale Ovest del Battistero di Parma (1196-1216). Cristo non porta corona, dietro il capo non compare alcun nimbo, è privo del libro. La gravità del suo volto è attenuata. Attorno alla sua figura, sono rappresentati i simboli della sua Passione, le “armi di Cristo”, grazie alle quali ha vinto la morte. Nelle nuove teofanie, Cristo si fa sempre più uomo tra gli uomini. In Cristo, Dio si mostra nella sua umanità. Con un gesto grandioso, avvolto in un ampio mantello che lascia intravedere la sua nudità, Cristo solleva simmetricamente le due mani, i cui palmi sono rivolti verso il fedele. I suoi piedi sono nudi, il suo petto è ora scoperto, in modo da rendere visibili le piaghe della carne. Cristo è colui che mostra le ferite, con le quali ha redento il mondo. Solo chi è nudo può lasciarsi ferire dalla misericordia di Dio, per accogliere la salvezza. Solo chi si spoglia di se stesso, può lasciarsi avvolgere dall’abbraccio del Padre. Se il libro in cui sono scritti i nomi degli eletti scompare, un nuovo testo emerge: quello della carne che mostra le nuove scritture, i segni delle cicatrici. Il suo corpo diventa ora il libro che si presenta come l’ultima rivelazione, come l’apocalisse. I solenni mantelli reali della tradizione iconografica bizantina e romanica lasciano il posto alla carne, che porta i segni del peccato degli uomini.

Il giudizio finale sarà in questo modo pronunciato non di fronte a una legge prescritta, ma davanti a quel corpo ferito. Cristo è giudice, in quanto ha sofferto, è morto ed è risorto. Ha preso il peccato su di sé, fino a farsi lui stesso peccato, come ricorda Paolo di Tarso. Il giudizio si compie di fronte al dolore di quell’uomo, di quel corpo piagato, donato. Certo, nella teofania, Cristo mostra sempre la sua signoria e la sua potenza. Il suo volto resta ieratico e frontale rispetto al fedele. Tuttavia, la sua sovrana maestà è mitigata dalla sua nudità, che non esita a presentarsi nelle sue fattezze anatomiche. Cristo è veramente Gesù, il Figlio di Dio, si è incarnato nella storia, è morto nudo sulla Croce. Quella stessa nudità si presenta ora al nostro sguardo. Se nelle teofanie bizantine Cristo si manifestava nella carne trasfigurata del Figlio, ora si può contemplare nella sua palpitante umanità. Il messaggio teologico è chiaro: se da un lato il Figlio dell’uomo viene per giudicare l’umanità, dall’altro, mostrandoci le sue piaghe, ci rivela che è morto per noi, per la nostra salvezza. Cristo ritorna come giudice per giudicarci, ma al tempo stesso si rivela come colui che ci giustifica, con la sua morte e risurrezione. Quel corpo ferito ha assunto il mio male, per liberarmi dalla morte. Cristo è colui salva. Il suo nome è Yeshu’a: Gesù, Salvatore degli uomini. Il bisogno del fratello è inscritto in quel corpo, la cui vita diventa ora il racconto che narra i drammi dell’uomo, le tragedie della storia. Quel giudice è il salvatore, il redentore, che conduce a contemplare il volto del Padre. È questa la giustizia di Dio.