Agorà

LE STORIE. Don Minzoni: abbasso il Duce, meglio il Vate

Roberto Beretta lunedì 19 marzo 2012
​Don Minzoni: che grande fotografo! Un inizio spiazzante, sapendo che qui si tratta del ben noto sacerdote protomartire del fascismo... Eppure l’arciprete di Argenta (Fe), assassinato a bastonate dagli squadristi la notte del 23 agosto 1923, quando aveva solo 38 anni, era anche un appassionato di fotografia; anzi, da qualche parte dovrebbero esistere ancora le immagini che mandava a stampare in un rinomato laboratorio fotografico bolognese. E sarebbe bello renderle finalmente note, per scoprire che cosa vedeva l’occhio di quel sacerdote tutto sommato «qualunque», poi ritrovatosi invece come un eroe sulle targhe di marmo ai cantoni delle strade di mezz’Italia. Così come, per intuirne il cuore e vedere che invece un martire non nasce affatto per caso, sono utili i diari ora ristampati e integrati a cura di Rocco Cerrato e Gian Luigi Melandri sotto il titolo di Memorie. 1909-1919 (Diabasis, pp. 490, euro 30). Anche se non si tratta degli scritti dei giorni «caldi» dell’opposizione al fascismo (del clima in cui maturò l’uccisione del sacerdote riferiscono comunque i curatori in un’ampia introduzione, che non nasconde nemmeno la cauta tiepidezza con cui la gerarchia tutto sommato reagì al delitto); i diari ricoprono infatti il periodo dall’ordinazione di Minzoni nel 1909 a tutta la Grande Guerra, durante la quale il sacerdote servì come cappellano militare su vari fronti. Tuttavia quelle ora ripubblicate sono comunque pagine preziose, non solo perché comprendono alcuni quaderni finora totalmente inediti, oltre a correggere errori ed omissioni nella prima edizione delle memorie minzoniane (curata a suo tempo da don Lorenzo Bedeschi); ma anche perché rivelano aspetti meno noti e più umani del futuro «eroe». Ad esempio – appunto – l’interesse per la fotografia, qualificato come «sorpresa» dagli esperti Cerrato e Melandri: una passione che si scatena proprio durante la guerra, tanto che nei diari militari i cenni agli scatti effettuati, cercati o addirittura costruiti aumentano col tempo; fino a riferire di una forte arrabbiatura per aver rovinato le preziose «gelatine» impressionate durante lo sfondamento a Vittorio Veneto.
 
Tornato ad Argenta, l’attività fotografica di don Minzoni continua, agevolata anche dal fatto che uno dei boy scout del suo gruppo era il figlio del titolare dello studio Villani di Bologna, poi divenuto il maggiore della città e il cui archivio – nel quale si potrebbero forse rinvenire lastre di don Giovanni – è ora finito agli Alinari di Firenze. I boy scout, dunque; ecco un’altra importante e non troppo nota attività del giovane prete: anzi, forse quella che gli costerà la vita. L’attaccamento ai suoi «esploratori cattolici» frutta infatti all’arciprete parecchi contrasti con i notabili del fascio locale, i quali volevano indirizzare tutti i giovani all’indottrinamento mussoliniano dei «balilla». Ma non solo: tra i punti di attrito col fascismo c’era anche il prestigio dell’ex cappellano militare, che aveva fatto la guerra – volontario e tra gli arditi – meritando la medaglia d’argento e che non voleva piegarsi al nuovo regime. Già nel novembre 1917, di passaggio a Milano, il sacerdote ebbe l’occasione di ascoltare un comizio del futuro Duce e così lo commentò: «Ha parlato a frasi convulse e dittatorie... L’entusiasmo mi sembrava che puzzasse un po’ di maschera». Nel 1923 poi – come scrive – «passa il Rubicone» suo personale e si iscrive al Partito popolare di don Sturzo.
L’itinerario di don Minzoni tuttavia ha incrociato – come questi diari ben testimoniano –  anche altri percorsi notevoli del cattolicesimo italiano nel Novecento: la Democrazia cristiana di Romolo Murri, per esempio, con i relativi entusiasmi iniziali e poi le delusioni; il modernismo – al problema del «Cristo storico» il giovane sacerdote dedica una tesi e nel marzo 1911 segnala sul diario la morte di Fogazzaro; l’interesse per il socialismo (tra 1912 e 1914 frequenta la Scuola sociale a Bergamo), legato alla necessità di aggiornare la pastorale ai nuovi fermenti economici e sociali delle campagne; ovviamente la guerra, con gli ardori patriottici e le sofferenze della trincea. Minzoni – scrivono i due curatori – «è un sacerdote che non ha gridato "viva la guerra" e che non ha neppure condiviso entusiasticamente le ragioni dell’interventismo. Non si schiera tuttavia neppure su posizioni pacifiste (anche se dichiara di non aver mai ucciso, la medaglia gli fu assegnata per aver guidato un assalto sul Piave in assenza di altri graduati, ndr)... Non avanza i tradizionali pregiudizi antiunitari di stampo clericale». Come cappellano, nell’agosto 1917 assiste anche un disertore (un povero cafone calabrese, padre di tre bambini piccoli) condannato a morte, come appare da una drammatica pagina mai pubblicata prima; la descrizione è lunga, segno che don Minzoni fu molto colpito dall’accaduto – e infatti confessa di essersi commosso. Per molti particolari del resto il carattere del sacerdote risulta passionale (la madre da bambino lo ammoniva: «Hai troppo cuore, Giannino, correggiti finché hai tempo»), forse un po’ impulsivo ma allegro, comunque ricco d’ingegno, con vari interessi per le novità – amava anche fare lunghi giri in bicicletta – e un’ammirevole sincerità di impegno per l’apostolato. Pure inedite sono le pagine – curiose – dell’incontro tra don Minzoni e Gabriele D’Annunzio: il cappellano viene infatti incaricato di consegnare al Vate una medaglia d’oro del reggimento, compito che svolge il 4 febbraio 1919 recandosi a Venezia, nella famosa Casetta Rossa del poeta. Interessante notare l’intesa che scaturisce tra i due, favorita pure dall’ammirazione del sacerdote per il famoso personaggio. D’Annunzio «in maglia d’aviatore... ha intavolata la conversazione mentre ci faceva servire il caffè e sigarette... Mi ha fatto tante domande in forma così famigliare che quasi quasi mi è parso di essere una sua vecchia conoscenza». Lo scrittore offre poi due opuscoli con dedica al «prode soldato di Cristo e d’Italia», lo invita a una cena dove discutono della possibile «fratellanza tra le nazioni» (D’Annunzio la nega, Minzoni invece la sostiene «a spada tratta»), gli anticipa addirittura l’impresa di Fiume: «Saremo pronti a fare una spedizione di volontari in Dalmazia e fare le fucilate per le vie di Fiume». Alla fine don Minzoni commenta: «Quella visita mi aveva lasciato nell’animo un profondo senso di benessere spirituale»; giudizio non da poco verso uno dei massimi cantori del regime di Mussolini, soprattutto perché usciva dalla penna di un futuro martire del fascismo.