Più ancora dell’università, a mancargli è il rapporto con gli studenti. «Tutto si è davvero svolto sotto i loro occhi, come hanno raccontato i giornali: stavo facendo lezione alla Cattolica di Milano quando mi ha raggiunto la telefonata del presidente Monti. Non ho potuto nascondere la mia sorpresa, né cancellare l’impressione che, almeno per un po’, non sarei più salito in cattedra», riassume Lorenzo Ornaghi, dal novembre scorso ministro per i Beni e le Attività Culturali. «La complessità del dicastero – spiega – sta già tutta nella dicitura che lo caratterizza. Abbiamo il dovere di conservare e valorizzare le opere ereditate dal passato, ma nello stesso tempo siamo chiamati a trovare forme nuove di condivisione e promozione della cultura. Risorsa preziosissima, specie per il nostro Paese e per ritrovare entusiasmo nel prepararne il futuro. Proprio per questo motivo lo Stato non può e non deve fare tutto da solo».Affermazione impegnativa, considerato che Ornaghi è uno dei più autorevoli politologi del nostro Paese: espressi da lui, concetti come “bene comune” e “cittadinanza” assumono un significato particolare. «Non possiamo illuderci – aggiunge – che il più vasto e ricco patrimonio culturale del mondo sia governabile attraverso una logica di frammentazione. Al contrario, è quanto mai urgente una visione unitaria, che permetta di venire incontro a una richiesta di cultura che, negli ultimi anni, si è fatta sempre più insistente, come dimostra l’accresciuta fruizione di musei e mostre. Un segnale da interpretare con intelligenza e, ancora una volta, in chiave innovativa».
Lei che idea si è fatto, signor ministro?«Che allo Stato culturale occorrerà sempre più affiancare la cittadinanza culturale. Il primo è un’eredità del passato: lo Stato, riconoscendo il valore della cultura, se ne fa pressoché esclusivo promotore e finanziatore. È un ruolo delicato, che può anche prestarsi ad abusi ed equivoci. La cittadinanza culturale, invece, è un modello diverso e maggiormente dinamico. Si fonda sulla consapevolezza che la cultura incide in modo diretto sui processi di cittadinanza, stabilendosi come luogo di incontro, integrazione e impegno comune».
Sta parlando da ministro o da politologo?«Da ministro, glielo assicuro. Penso, in concreto, a operazioni paradigmatiche come quella di Ercolano; o del Colosseo, che a sua volta deve molto al modello utilizzato dai Musei Vaticani per la Cappella Sistina: l’onere del restauro e della gestione è assunto da un privato, che in cambio ottiene alcuni diritti sul sito preso in carico. Per un periodo limitato e a determinate condizioni, è chiaro. Non è il mecenatismo tradizionale, ma l’attestazione di come la cultura, essendo un bene di tutti e per tutti, chiede attenzione e partecipazione da parte dell’intera collettività. Lo Stato non arretra, ma assume un ruolo di coordinamento e di garanzia».
Con quali strumenti?«Questo è un problema serio. Nella situazione attuale, l’eccessiva segmentazione delle competenze rischia di tradursi in un meccanismo farraginoso e troppo spesso inefficace. In Italia le realtà impegnate nella cultura sono numerose e variegate, dai musei al cinema, dal paesaggio alle biblioteche e via elencando. Ma proprio per questo occorrerebbe concordare semplici linee guida a cui ciascun ente, senza rinunciare in nulla alla sua specificità, debba attenersi. Rispetto al tema cruciale del paesaggio, per esempio, è opportuno fissare al più presto, con i ministri dell’Ambiente, delle Risorse Agricole e dello Sviluppo economico, un insieme di poche regole essenziali, che ci consentano di uscire da un’intollerabile fase di lungaggini, contraddizioni, talvolta veti incrociati».
Quale ruolo può giocare, invece, la scuola?«È possibile immaginare nuove iniziative, magari nel contesto della tradizionale Settimana della Cultura, che accompagnino gli studenti alla scoperta di tesori non di rado nascosti o assai poco conosciuti. In generale, dobbiamo ridurre le distanze fra le materie d’insegnamento e l’esperienza dei “consumi culturali” che i giovani compiono quotidianamente. Il cinema, la televisione e, a maggior ragione, i cosiddetti nuovi media non possono restare ai margini della formazione scolastica. Probabilmente devono entrare non come argomenti a sé stanti, ma come elementi di riflessione e di confronto, nel tentativo di educare a una vitalità che, a livello sociale, è sempre più effervescente e complessa».
Un mezzo come la televisione potrebbe ancora dare un apporto?«Certamente, a patto che si esca dall’equivoco per cui la cultura, in tv, si fa soltanto attraverso le trasmissioni culturali. Occorrono conduttori a loro agio con uno spettro ampio di temi e conoscenze, per esempio. E occorre che l’intero sistema televisivo, a partire dal Servizio pubblico, si pensi come strumento e crocevia di cultura».
Proviamo ad ascoltare l’avvocato del diavolo?«Va bene, proviamo».
Si potrebbe obiettare che in tempo di crisi l’economia conta più della cultura.«In tempi di crisi l’economia ha bisogno di più cultura, rispondo. Quanto sta accadendo in Grecia dev’essere di monito a tutta l’Europa, in particolare al nostro Paese: Atene condivide la primogenitura del continente con Roma. E con Gerusalemme, aggiungerebbe uno storico del calibro di Rémi Brague. Un vero piano politico di salvataggio non può accontentarsi di rimettere a posto i conti (che, sia chiaro, vanno assolutamente sistemati), ma deve puntare a ridare dignità e speranza a un popolo. E nessun modello di sviluppo, diverso o meno vulnerabile dell’attuale, è possibile quando non abbia alla sua base un rinnovato slancio culturale. È uno slancio, questo, che direttamente riguarda anche la politica. Altrimenti non si potrà far altro che assistere impotenti al distacco crescente fra cittadini e istituzioni. Un distacco sempre più drammatico, sempre più pericoloso per la vita stessa della democrazia».
E le famiglie? Come si inseriscono in questo processo?«Con il loro crescente desiderio di cultura, che non va sacrificato alla scarsità di risorse. Trovo opportuno che si stiano valutando progetti pilota che, grazie al sostegno di sponsor, vorrebbero garantire l’accesso gratuito ai musei di uno specifico territorio. Purtroppo questo non è tempo per pensare a provvedimenti immediati, come l’esenzione fiscale per l’acquisto di libri. Ma tutti, all’interno dell’esecutivo, abbiamo la consapevolezza che il Paese può svilupparsi, o all’opposto stagnerà, sulla base e in proporzione dell’investimento che siamo disposti a compiere sulle generazioni più giovani. È una trasformazione che va avviata fin d’ora e che comporta, tra l’altro, una valorizzazione capillare di esperienze e competenze. Ci attendono scadenze importanti; grandi opere chiedono di essere realizzate in modo da rendere l’Italia competitiva a livello internazionale. L’apporto dei giovani sarà decisivo».
Grandi opere, diceva: quali?«Il primo lotto dei Grandi Uffizi è quasi completato, su Pompei abbiamo preso decisioni operative e altre sono allo studio per L’Aquila. Tra le urgenze maggiori (e lo dico da ministro, prima che da lombardo) vi è quella di finalmente attuare il piano per Brera. Né dimentico l’impareggiabile giacimento culturale del Sud: a Reggio Calabria, per citare un solo caso, dovremo riuscire a completare e promuovere il nuovo museo dei Bronzi di Riace. Ancora una volta si tratta di delineare un modello culturale e imprenditoriale che sappia superare la logica del “carrozzone” e usi le grandi opere come volano di sviluppo per l’intero Paese».
Posso chiederle se, in quanto cattolico, si considera portavoce di una particolare sensibilità?«Non ne farei una questione strettamente personale. Ma mi sembra chiaro che, anche per quanto riguarda la cultura, il concetto di bene comune – così connaturato al pensiero e all’azione dei cattolici – assume oggi una rilevanza decisiva. Il Paese fatica a uscire dalla sgomento che provoca la frattura fra società e politica, fra cittadini e ceto politico-dirigente. Così come gli italiani sono sempre più insofferenti nell’assistere a incomprensibili divisioni in fazioni inconciliabilmente avverse. Per oltrepassare finalmente una crisi che resta enigmatica nelle sue cause più profonde, e che tanto più fa crescere le nostre inquietudini e paure quanto più persiste nel tempo, davvero è indispensabile uno slancio creativo. Davvero è urgente un risveglio culturale. A questo risveglio i cattolici portano in dote uno stile di laboriosità e uno spirito di sacrificio che, alla lunga, si connotano come rinnovato senso dello Stato e delle istituzioni. Ciò di cui appunto abbiamo bisogno adesso, aggiungo, per riscoprire l’orgoglio di essere cittadini italiani, in un’Europa che non può paralizzarsi per eccesso di tecnocrazia e per colpevole impotenza dinanzi allo strapotere di interessi oligarchici o di qualche mano – troppo lesta o troppo lunga – dei mercati».