Agorà

Classica. Milletarì, dal sax alla bacchetta

Pierachille Dolfini mercoledì 10 giugno 2020

Il trentenne direttore d’orchestra tarantino Vincenzo Milletarì

Non fosse stato per l’amico vicino di casa «che ogni giorno mi portava nell’unico negozio di musica di Taranto a vedere le chitarre» oggi Vincenzo Milletarì sarebbe un ingegnere meccanico. «In famiglia di musicisti non ce ne sono, mamma lavora in un ufficio pubblico e papà è ristoratore. E in più con mio fratello e le mie tre sorelle si andava raramente a teatro» racconta Milletarì che in quel negozio di musica della sua città vide un sassofono e disse «perché non provarci?». Classe 1990, studi a Bari, a Brescia, al Conservatorio Verdi di Milano e un master in direzione d’orchestra all’Accademia reale di musica di Copenaghen, oggi Milletarì è uno dei direttori più di talento della sua generazione: in agenda, dopo la ripartenza, Carmen a Stoccolma, Rigoletto a Praga, Madama Butterfly a Copenaghen. Ma prima, il 25 luglio, sarà al Macerata opera festival il cui programma è stato ripensato per l’emergenza Covid: «DirigeròTrovatore di Verdi in forma di concerto» racconta il musicista che durante il lockdown non ha mai smesso nemmeno un giorno di studiare. «Eppure sino ai 14 anni non mi immaginavo sul podio, nessuna storia da bambino prodigio che invece di giocare a calcio fingeva di dirigere un’orchestra ascoltando i dischi».

Tutta “colpa” di quel sassofono se oggi impugna una bacchetta?

Tornai a casa e dissi a mio padre che volevo studiare musica e lui, vedendo in un figlio con poche passioni, se non quella per il nuoto, un improvviso entusiasmo mi disse di sì. Trovai un ottimo insegnante e fu quella la chiave. Prima il sassofono, poi il clarinetto, ma mi interessava avere uno sguardo più ampio sulla musica così pensai di studiare composizione: frequentavo il liceo scientifico e una volta la settimana andavo in Conservatorio a Bari perché a Taranto avevano chiuso il corso di composizione il giorno stesso in cui ero andato per iscrivermi. Non è stato facile, molti professori non capivano. Il mio sponsor più appassionato era il docente di matematica, il più temuto di Taranto. E anche la mia famiglia non era d’accordo, pur non avendomi fatto mai mancare il sostegno.

Come ha fatto a convincerli?

Ero ancora al liceo e viaggiavo di notte per andare a sentire le prove di Claudio Abbado con l’orchestra Mozart. La passione per la musica mi prendeva sempre di più. E quando si è trattato di scegliere cosa fare dopo la maturità, visto che l’incertezza dovuta alla crisi economica del 2008 era un’incognita per me e per i miei coetanei, ho pensato di fare ciò che mi piaceva. A vent’anni mi sono trasferito a Brescia a studiare. In famiglia hanno capito che facevo sul serio, ma a convincerli definitivamente che quella era la mia strada il fatto che Riccardo Muti mi aveva scelto nel 2015 per la sua Academy.

Difficile lasciare Taranto e la famiglia per trasferirsi al Nord?

Essendo irrequieto di natura non mi ha pesato lasciare la mia terra, tanto più che ogni cambiamento è stato sempre per ottenere qualcosa di meglio e sono grato a tutti i posti dove ho studiato e a tutte le persone con le quali mi sono formato. Certo, quelli tra i 20 e i 25 sono stati i miei anni di galera perché, non avendo avuto un’infanzia musicale, dovevo recuperare. Ma la passione per la musica era più forte.

Il sassofono, il clarinetto e poi la scelta di diventare direttore d’orchestra...

La prima volta che ci ho pensato avevo 14 anni ed ero al San Carlo di Napoli: seguendo l’opera mi sono accorto che il direttore è il perno di tutto, quando va tutto bene è merito suo, ma anche quando le cose non funzionano. Lì ho capito che volevo salire anch’io su un podio. Studiavo e ascoltavo storiche incisioni, Un ballo in maschera di Abbado e di George Solti, Macbeth di Muti e in camera avevo il poster di Karajan. Figure leggendarie, ma oggi quel modello di direttore è cambiato: le orchestre, specie nel nord Europa dove dirigo spesso, sono un’entità da capire e convincere per portare tutti nella stessa direzione, occorre coinvolgerli, non imporsi. Mi capita a volte, quando l’orchestra suona bene, i cantanti rispondono, lo spettacolo funziona di sentirmi in pace, quasi sospeso e godermi una sensazione che assomiglia a quella di quando sei su una barca a vela e ti godi il vento di boforzato lina. Ecco perché faccio musica.

Musica che si prepara a ripartire dopo lo stop dovuto al coronavirus.

Non vedo l’ora, mi sono saltati Italiana in Algeri di Rossini nel circuito delle Marche e un concerto alla Verdi di Milano. Dobbiamo evitare che questo stop possa essere il colpo di grazia per un settore come quello della cultura già penalizzato. Sono sicuro, comunque, che ci rialzeremo perché la cultura è un’eccellenza italiana: come direttori d’orchestra abbiamo talento da vendere, siamo in tutti i teatri del mondo con grandi nomi del podio.

Quello trascorso è stato un tempo di studio, ma anche di riposo?

Ne avevo bisogno perché a gennaio e febbraio ho fatto la spola tra Praga, dove dirigevo Madama Butterfly, e Copenaghen, dovere ero in cartellone con Traviata: sveglia alle 3.30, aereo alle 6, recita la sera, ripartenza l’indomani mattina. Ho studiato musica, ma anche le lingue: dopo inglese e tedesco ora imparo il danese e il francese. E sono tornato a fare sport dopo che per anni sono stato in una squadra di nuoto nel Bresciano facendo le traversate dei laghi. Il calcio? Solo in tv, con il Brescia in serie A è obbligatorio: tifo per la squadra della città dove vivo, ma anche per la Juventus. E anche qui ora si riparte.

Nessun rimpianto per non essere diventato ingegnere meccanico?

No, ma non escludo in futuro, posata la bacchetta, di mettermi a studiare da meccanico per sistemare auto d’epoca.