Nei dieci anni trascorsi dalla scomparsa, avvenuta il 10 agosto 2001, Gianfranco Miglio è stato ricordato soprattutto per i progetti di riforma istituzionale e per l’esperienza politica condotta, nei primi anni Novanta, a sostegno di una revisione in senso federale della Costituzione italiana. In questo modo, la sua eredità intellettuale certo non è stata effettivamente tradita. Ma, senza dubbio, si è finito col dare una rappresentazione limitata, se non proprio fuorviante, di un intellettuale il cui itinerario fu ben più complesso. Prima (e forse più) che un teorico del federalismo, Gianfranco Miglio fu soprattutto uno scienziato della politica. Nel corso di circa mezzo secolo, a partire dagli anni Quaranta del Novecento, dedicò infatti la gran parte delle proprie energie intellettuali all’esplorazione dei caratteri originari del politico. E la sua intera attività di ricerca appare indirizzata alla decifrazione di quelli che definiva – con una formula tacitiana, già adottata da Pietro De Francisci – come gli
arcana imperii, ossia le strutture più profonde dei rapporti di potere. All’interno della sua teoria, un ruolo cruciale era rivestito dall’ipotesi che esistessero due tipi differenti tipi di relazioni umane, entrambe originarie e strutturalmente irresolubili l’una nell’altra: l’"obbligazione politica" e il "contratto-scambio". Ma la sua convinzione – soprattutto a partire da un certo momento – era in particolare che la politica fosse sostanzialmente irriducibile al diritto e a ogni regolamentazione giuridica. Il vincolo politico era dunque destinato, inevitabilmente, a disordinare ogni ordinamento, oltre che a mostrare il proprio carattere originario. Un carattere originario contrassegnato dalla relazione personale di dominio del capo sul proprio seguito, dalla contrapposizione con un nemico esterno, dalla produzione di ideologie, dalla redistribuzione di rendite garantite. Il disegno complessivo della sua teoria doveva essere esposto in quelle
Lezioni di politica pura che Miglio promise più volte ai suoi lettori, ma di cui non riuscì mai a portare a termine la stesura. Per questo motivo, nei contributi dello studioso comasco – raccolti soprattutto nei due volumi delle
Regolarità della politica (Giuffrè) – le riflessioni sul "cristallo" dell’obbligazione politica risultano solo accennate. Tanto che il quadro teorico che Miglio aveva elaborato affiora solo nei suoi contorni generali. La struttura di quell’opera incompiuta si può invece ritrovare nei corsi universitari di Miglio, tenuti nell’arco di circa un trentennio presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e ora finalmente pubblicati dal Mulino, con il titolo
Lezioni di politica e la presentazione degli allievi Pierangelo Schiera e Lorenzo Ornaghi. I due volumi -
Storia delle dottrine politiche (pagine 352) e
Scienza della politica (520 pagine), in libreria dal 25 agosto e curati rispettivamente da Davide G. Bianchi e Alessandro Vitale – riproducono infatti le trascrizioni delle registrazioni dei corsi di Miglio, conservate gelosamente per decenni da allievi e studenti. E, soprattutto, consentono di ritrovare lo scheletro di quelle che dovevano diventare le
Lezioni di politica pura. Naturalmente, nelle pagine di questi due volumi non mancano le semplificazioni, d’altronde inevitabili in un’esposizione di carattere didattico. Ma, ciò nonostante, accostarsi oggi a queste
Lezioni è una straordinaria opportunità per ricordare lo studioso comasco e per ripensarne il lascito intellettuale. Perché non significa soltanto incontrare – di nuovo, o per la prima volta – un Miglio spesso dimenticato, e forse realmente conosciuto solo da coloro che furono suoi studenti. Leggere oggi le sue
Lezioni vuol dire soprattutto tornare a confrontarsi con le inflessibili "regolarità" della politica. E riprendere il filo di una ricerca – tutt’altro che definitivamente racchiusa in un organico sistema teorico – sui grandi processi di trasformazione dei sistemi politici. Fissare in un quadro cristallizzato e privo di interne incoerenze il pensiero di Gianfranco Miglio significherebbe d’altronde impoverire gli esiti di un’indagine che egli stesso si rifiutò sempre di considerare conclusa una volta per tutte. Come, d’altro canto, trasformarlo nella figurina caricaturale da collocare in un maldestro pantheon ideologico vorrebbe dire tradire l’eredità di un intellettuale che, peraltro, fu sempre – quasi visceralmente – insofferente nei confronti delle retoriche di partito e delle appartenenze ideologiche. Ripartire, ancora una volta, proprio dalla sua scienza del potere, e puntare lo sguardo sui problemi irrisolti –forse persino sulle aporie – della sua riflessione, è invece il modo migliore per proseguire la ricerca di Miglio. E, soprattutto, è il modo migliore per raccogliere davvero la sfida di uno studioso che dedicò le proprie energie intellettuali a una costante, inesausta, interminabile esplorazione dentro il cuore più impenetrabile degli
arcana imperii.