BookCity. Michael Jean: «Canada, proteggi le donne indigene»
Lo scrittore Michael Jean
Una storia di famiglia, un racconto di oppressione di un popolo autoctono, un disperato tentativo di una donna di difendere la propria dignità, un mondo scomparso, o quasi. Tutto questo è Kukum (Marcos y Marcos, pagine 228, euro 18,00) dell’autore canadese Michel Jean, in queste settimane in Italia per un tour che inizierà domenica 17 novembre a Milano in occasione di BookCity, grazie al sostegno della Delegazione del Québec in Italia e alla collaborazione dell’Ambasciata del Canada. L’abbiamo intervistato su temi come la perdita delle origini, la biodiversità linguistica, le barriere culturali e l’ambiente, partendo da un dato personale: Kukum, infatti, è basato sulla vita della bisnonna di Jean e sulla comunità Innu di Mashteuiatsh, di cui lui stesso fa parte. «Ho scritto questo libro – spiega – perché mi sono reso conto che le persone intorno a me quando pensano alle comunità indigene le immaginano vivere in una riserva, perché per molto tempo è stato così, ma le cose nel tempo sono cambiate. Mia nonna per esempio è nata in una tenda, io invece sono nato in ospedale. Inoltre mi sono reso conto che le persone spesso non hanno percezione dei problemi delle comunità, le giudicano senza considerare cosa ha creato determinati problemi».
Come è stato scrivere di un personaggio femminile come Almanda, la sua protagonista?
«Non è stato difficile, perché per me Almanda non parla tanto come donna, parla piuttosto come un bisogno, come un Innu, come qualcuno che ha scoperto, imparato ad amare e apprezzare la cultura Innu».
Pensa che oggi si stiano perdendo le origini di comunità come quella Innu?
«No, ma sono messe in discussione e sono sotto attacco. Direi che uno dei problemi è la lingua. Il Quebec, dove vivo, è l’unica provincia francofona del Canada e i francofoni stanno combattendo per preservarlo. Ci sono quasi 400 milioni di anglofoni nel Nord America e solo 8 milioni parlano francese in Quebec. Ci sono però poi altre 11 lingue che non hanno alcun tipo di riconoscimento. Quindi è una battaglia per preservare la lingua; la lingua per me è un tesoro, perché con la lingua si trasforma la cultura. Siamo sempre più scrittori, sempre più persone che utilizzano la letteratura come uno strumento per tutto questo».
Oltre al tema della lingua, nel libro c’è quello delle barriere imposte alle donne indigene.
«I numeri purtroppo parlano da soli. Negli anni ci sono state centinaia di migliaia di donne indigene che sono state uccise o sono scomparse. Il motivo principale è il fatto che vivono in comunità in cui sono più vulnerabili. L’altro motivo è che spesso quando una donna indigena scompare o le succede qualcosa, non c’è lo stesso livello di consapevolezza che c’è per le persone di altre comunità, tra i media, tra la polizia. Gli stessi criminali sanno che se devono scegliere qualcuno da colpire, è meglio puntare sule donne indigene. Con loro hanno meno possibilità di avere la polizia alle calcagna».
Almanda si innamora di un giovane Innu nonostante le differenze culturali. Crede che l’amore possa superare ogni barriera?
«Beh, è successo davvero, non l’ho inventato. E penso davvero che, sì, esista quel tipo di amore. Almanda è una donna giovane, ambiziosa, avventurosa, che ha dei sogni, e ha dall’altra parte un giovane uomo bello, che le parla di una vita avventurosa; lei non è mai andata sull’altra sponda del lago. È un grande lago, non si vede dall’altra parte. Lui le parla di questo mondo che c’è laggiù di cui lei non ha mai sentito parlare. Nel libro si racconta di come gli Innu siano stati in grado di accettarla e aiutarla, e questa è stata una grande sfida per lei. Non sapeva nulla di quella cultura, tutte le cose da sapere le ha imparate nel corso della sua vita, guardando e ascoltando le persone più grandi, facendo un corso accelerato. Penso che questo valga sempre, in ogni cosa: se si è aperti di mente e di cuore, l’amore può superare davvero molti ostacoli».
Nel suo libro c’è anche un tema ambientale, quando l’industria del legname costringe a un drastico cambiamento di stile di vita gli Innu della zona.
«Gli Innu vivono lì da migliaia di anni e c’è sempre stata una foresta, ma la vita moderna, come la chiamiamo noi, ha usato la foresta, ha tagliato la foresta. Oggi se si va a nord, in Québec, si pensa a un Paese con enormi foreste, ma in realtà si possono percorrere centinaia di chilometri senza vedere un solo albero, perché vengono tagliati. Tuttavia, per noi non si tratta solo di una foresta, non si tratta solo di un Paese. Noi ci vediamo non come proprietari di quel territorio, quindi la conservazione del territorio è qualcosa di fondamentale. Credo che con il riscaldamento globale ci stiamo rendendo conto che il modo in cui stiamo usando i territori forse non è qualcosa che potremo continuare a utilizzare così ancora molto a lungo. Ovunque io vada vedo le giovani generazioni, dai 35 anni in giù, che sono tutte preoccupate per l’ambiente, che ne hanno a cuore i diritti. Per come la vedo io, non ho intenzione di dire alle persone cosa pensare, ma penso che ciascuno possa riflettere da solo quando si mostra cosa accade quando si distrugge qualcosa. Ecco il modo in cui viene toccato il tema ambientale nel mio libro».
Il romanzo riunisce diversi generi: romanzo di formazione, romanzo d’amore, ma anche una riflessione sui popoli nomadi. Pensa che sia cambiato il modo in cui il nomadismo della comunità Innu viene vissuto oggi?
«Il modo di vivere nomade com’era un tempo non esiste più. Non si può più coltivare lungo il fiume. Ci sono dighe, ci sono strade dappertutto, non c’è più una foresta. Il territorio è stato modificato troppo, ma vive ancora nella nostra testa, vive nei cuori delle persone, perché per me e per gli altri è ancora qualcosa che sentiamo nostro, che fa parte della nostra cultura e che in qualche modo cerchiamo di preservare il più possibile, come possiamo».