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Il saggio. Michael Ignatieff: «Secolarizzati? Meno di quanto crediamo»

Gianni Santamaria lunedì 9 settembre 2024

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La consolazione per la morte di una persona cara «è al limite del linguaggio, al limite della storia, al limite delle umane possibilità». Non meno difficili sono le forme di consolazione per i lutti collettivi. Questo limite Michael Ignatieff, storico canadese di origini russe, lo ha indagato in Sulla consolazione. Trovare conforto nei tempi bui, pubblicato da Vita e Pensiero. Sono diciotto ritratti storici di persone – artisti, poeti scrittori - che hanno cercato di vivere la consolazione nel mondo cristiano, ma non solo. Oggi l’autore ne parlerà a Mantova con lo scrittore e giornalista Alessandro Zaccuri. In questa intervista lo storico, che dirige il Carr Center for Human Rights Policy dell’Università di Harvard – e che in passato è stato anche uomo politico e rettore dell’Università Centroeuropea di Budapest, prima di dover lasciare l’Ungheria e trasferirsi a Vienna per essere stato estromesso da Viktor Orbán – traccia le possibili rotte della consolazione nel mondo di oggi.

Cosa significa consolazione in tempi sempre più bui?

«Ho cercato di recuperare una parola che era andata perduta. Era una parola del cristianesimo, della religione. Ma oggi siamo in un mondo post-religioso. Molti di noi non cercano consolazione nel tessuto del mondo cristiano, ebreo o islamico. Ma c’è un ma. Abbiamo ancora bisogno di consolazione».

Come ritrovarla a partire dal passato, allora?

«Andiamo in biblioteca. Marco Aurelio è ancora lì, Cicerone anche. Andiamo a Toledo a vedere la Sepoltura del conte di Orgaz di El Greco. Ascoltiamo i Kindertotenlieder (Canti per i bambini morti ndr) di Gustav Mahler. Questo è un primo messaggio, positivo. Il secondo è più complesso».

Qual è?

«Quando muore qualcuno che amiamo, la consolazione è impossibile. Essa è al limite del linguaggio, al limite della storia, al limite delle umane possibilità. Cicerone è il maestro della dottrina ufficiale a Roma sulla consolazione, lo stoicismo. Ma quando la figlia muore, lui si sente impotente. Pian piano si riprende e torna a essere Cicerone. Ma non grazie alla filosofia, bensì per il semplice, desiderio biologico, animale, di vivere. Questo ci insegna i limiti della filosofia e del linguaggio».

Lei parla di società post-religiosa, come si accorda ciò con il pensiero del suo conterraneo Charles Taylor?

«Una delle mie conclusioni è che siamo meno secolarizzati, meno post-cristiani, di quanto pensiamo. Lo si vede nei funerali, dove persone che non credono in Dio si sentono confortate dalle parole del Vangelo. Cosa accade, allora? Io non sono una persona religiosa, ma sarei molto felice che alla mia morte qualcuno recitasse il Salmo 23 “Il Signore è il mio pastore”: «Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male». Sono le parole maggiormente di conforto che conosciamo e tra le più antiche. Dunque, siamo di fronte a un mistero. Le chiese sono vuote, la Chiesa è “in crisi”, ma ancora queste parole ci toccano. È nostalgia? La misteriosa opera dello Spirito Santo? Non lo so. Quello che so è che la distinzione tra un’era religiosa, secolare e post-secolare mi sembra falsa. Tutto è più caotico. Perciò ascolto con attenzione ciò che il mio conterraneo Charles Taylor dice, ma non sono sicuro che abbia ragione».

Tra le figure che lei cita c’è Havel, il cui motto era “vivere nella verità”. Oggi viviamo troppo nelle illusioni e nelle fake news generate da comunicazione e tecnologia?

«Ogni volta che vado in libreria mi sento scoraggiato, troppi libri. (Prende in mano il telefonino e inizia a sfogliare le app ndr). E poi New York Times, Sunday Times, Le Monde, e la musica. Stiamo annegando in questa confusione, siamo frastornati. E tutto ciò non ci aiuta quando sperimentiamo il dolore, la perdita, il fallimento. Tutto si fa silente. Non sono pessimista. In questo silenzio desideriamo qualcosa di vero. Ci si concentra, si vaglia il tempo come il grano. Si cerca consolazione in qualsiasi cosa: l’arte, la poesia, una canzone che la mamma ci cantava quando eravamo bambini».

Lei ha fatto politica. Questa può contribuire se non a consolare ad aiutare le persone?

«Sono un liberale e credo che la politica possa risolvere problemi: smaltire i rifiuti, evitare la povertà e la fame, creare le condizioni per avere legge, ordine e un po’ di giustizia. E se si è saggi, si può contribuire al progresso economico e si possono creare le condizioni per un dibattito pubblico che non sia gridarsi in faccia. Ma non si possono fermare sofferenza, morte, tragedie. Per questo spesso siamo delusi dalla politica e occorre che essa non faccia promesse irrealizzabili».

E fermare le guerre?

«La politica le inizia, la politica le ferma. Io prego perché il presidente Biden e il suo segretario di Stato ottengano un cessate il fuoco a Gaza. Gli Usa dovrebbero dire a Netanyahu e a Sinwar “basta così” (lo dice in italiano ndr). E prego anche che ci sia pace in Ucraina. Ma la cosa è più complicata».

Perché?

«C’è stata un’invasione, una violazione del diritto internazionale. Gli ucraini combattono per la loro libertà, ma penso sia impossibile che riprendano tutti i loro territori. Dunque, il dilemma è come ottenere una pace onorevole. Da osservatore esterno, come chiunque, non posso dare lezioni agli ucraini, che hanno terribilmente sofferto negli ultimi due anni. Solo loro possono decidere quando è l’ora di fare la pace. Ma vedo un’analogia con la Finlandia del 1940, che per sopravvivere è scesa a patti con Stalin, perdendo molti territori. Oggi è un paese ricco ed è nella Nato e nell’Ue. Per questo futuro però bisogna combattere. I russi vanno fermati. Perciò Usa ed Europa devono aiutare di più l’Ucraina».

A proposito di Europa, lei è un esperto di Europa centrale. Come vede la crescita del populismi evidenziata dalle recenti elezioni tedesche?

«La questione che riguarda Meloni, Afd, Le Pen, Wilders e altri non è se siano di destra, bensì se rispettino l’ordine costituzionale. Sono un liberale, sono di sinistra, non mi piacciono. Ma se restano nella costituzione, nella democrazia, hanno tutto il diritto di competere. Devono essere battuti in una competizione democratica, l’idea che siano una minaccia alla democrazia è ridicola. Orbán, invece, ha distrutto la costituzione ungherese e il suo populismo è un pericolo per la democrazia in Europa. A me non piace Trump. Il problema con lui è che non ha accettato il risultato delle elezioni del novembre 2020 e così è uscito dall’ordine costituzionale. Questo è il problema, non le sue idee, sugli immigrati, sulle donne, che possono essere sconfitte. Per questo le elezioni di novembre sono cruciali».

Lei non teme il ritorno di fantasmi del passato?

«Persino in Ungheria c’è adesso una forte opposizione a Orban. E la questione sarà se lui accetterà di essere sconfitto nelle elezioni del 2026. Se non lo farà, ci sarà un serio rischio che il futuro della democrazia in Ungheria si giocherà, si disputerà, per le strade di Budapest. Dobbiamo pregare perché ciò non accada, sarebbe terribile».

Lei è di origini russe. L’attuale confronto Usa-Russia può essere paragonato a quello della guerra fredda?

«È peggio, perché i russi hanno invaso e cercato di distruggere uno Stato democratico che è a tutti gli effetti Europa, basta andare a Kiev per accorgersene. Dunque, ha invaso l’Europa. E questo è un problema serio. La tragedia della Russia è che ha avuto due momenti nella storia in cui avrebbe potuto diventare una democrazia – tra il 1905 e il 1914 e subito dopo il 1989 – ma in entrambi i casi la democrazia è morta. Dunque, non c’è una tradizione su cui svilupparla e mi sento di dire che la Russia avrà regimi autoritari per molto tempo».

Torniamo alla consolazione. Il messaggio che da questa viene nei tempi bui, scrive nel libro, è che non siamo soli. C’è però l’esperienza ineludibile del morire, in cui si è soli, come diceva Hans Jonas. C’è oggi una svalutazione della vita umana nei suoi ultimi momenti che ne riflette una più generale?

«Non credo a chi argomenta che nei tempi moderni ci sia indifferenza verso la vita. Le nostra società si prendono cura di essa più che ogni altra i cui l’uomo abbia vissuto. Un capitolo del libro è su Cicely Saunders, la donna che ha inventato le cure palliative e gli hospice, luoghi in cui puoi decidere non quando, ma come morire. Ha capito che la solitudine del morire è qualcosa di falso. Morire è una performance. Moriamo per gli altri. Vogliamo avere i nostri cari intorno per dirgli, per quanto ci sarà possibile, di non avere paura. Siamo sociali e possiamo determinarci fino all’ultimo. Per questo considero Cecily Saunders una grande donna, coraggiosa, tenace intelligente, favolosa».