Agorà

GRATTACIELI. Miapolis, il dito di Babele

Leonardo Servadio lunedì 21 giugno 2010
Non si era ancora spento l’eco dell’ultima coda di polemiche sollevate dall’inaugurazione della megatorre di Burj Dubai (coi suoi 828 metri il mastodonte più mastodontico mai messo in piedi sulla Terra) nel gennaio passato (in realtà la costruzione è ancora in corso, ma oggi sono di moda le cerimonie preventive), che già da Miami risuonava la sfida: Guillermo Socarra, immobiliarista floridegno, proponeva di costruire Miapolis, una torre di 975 metri, il cui protoprogetto in realtà circolava da una decina d’anni, a firma di Kobi Karp Architects. Così il primato sarebbe ritornato in mani americane, e avrebbe attirato gli occhi del mondo sulla fiorente città balneare, mecca dei vacanzieri e dei pensionati di lusso d’oltre oceano. Miapolis dovrebbe sorgere sull’isolotto di Watson, una specie di oasi floreale il cui proprietario peraltro protesta che non v’è ancora accordo. Ma il dibattito prosegue imperterrito: recente è la notizia che questa nuova vetta dell’edilizia avrebbe la benedizione del Leed (Leadership in energy and environmental design, la certificazione elaborata dall’US Green building council che garantisce la massima riduzione dell’impatto ambientale del costruito), e sarebbe quindi una megatorre più che sostenibile. Il suo profilo è accattivante, appare come due ali poste in verticale, accostate e raccordate da una serie di ponti a diverse quote. Se sarà veramente costruita, non dipende da questioni tecnologiche ma da ragioni puramente economiche e, ovviamente, di prestigio: ma economia e prestigio vanno strettamente di pari passo quando si parla di grattacieli. Le radici da cui sorgono infatti sono sempre le stesse: da un lato il desiderio di disporre di superfici commerciali sempre maggiori per un lotto di terreno dato, dall’altra quella, spesso preminente, di emergere nel proscenio del mondo manifestando un’aura di potere. A tal riguardo dal tempo delle ziqqurat e delle piramidi sono mutate alcune tecniche, ma non le intenzioni.Infatti il diffondersi della ricchezza nei diversi continenti può anche misurarsi attraverso un’osservazione del sorgere di edifici a torre. Dopo l’11 settembre 2001 qualcuno pensò che l’epoca dei grattacieli fosse finita: si erano dimostrati troppo facilmente attaccabili, e troppo disastrose erano state le conseguenze per chi vi si trovava. Eppure il primo decennio del nuovo millennio è stato quello nel corso del quale si è costruito il numero maggiore di tali edifici. Considerando solo quelli superiori a 261 metri, dopo il 2001 ne sono stati completati 43 nel mondo (soprattutto in Cina, qualcuno nei paesi arabi e le due note torri di Kuala Lampur): per paragone negli anni ’90 ne furono costruiti 29 (nelle stesse aree geografiche), 10 negli anni ’80 (quasi tutti negli Usa, uno a Singapore), 6 negli anni ’70 (tutti in Usa più uno in Canada), 1 negli anni ’60 (a Chicago), nessuno negli anni ’50 e ’40, e 4 negli anni ’30 (tutti a New York, tra i quali l’Empire State che a tutt’oggi è stato superato in altezza solo da 13 altri edifici).E i progetti proliferano e raggiungono zone nuove, come per esempio la Russia, il Messico, la Svezia, l’Australia, l’Etiopia, dove la Commercial Bank ha appena assegnato a una cordata di studi di progettazione tedeschi il premio nel concorso indetto per realizzare una nuova torre di 42 piani che ospiterà il proprio centro direzionale ad Addis Abeba.Il cambiamento più significativo dopo il 2001 è di carattere strutturale: le Twin Tower crollarono perché l’acciaio che ne costituiva la struttura cedette improvvisamente a seguito del calore sviluppato dall’incendio. La quasi totalità delle torri costruite prima degli anni ’90 hanno struttura in acciaio. Nei primi anni 2000 solo il 40 per cento delle torri poggia su strutture in acciaio (peraltro protetto e isolato), mentre la maggior parte ha ossature in cemento (circa la metà) o composite (cemento e acciaio) e in anni più recenti il numero di edifici in acciaio si è ulteriormente ridotto.Un’altra variazione significativa di questi ultimi anni consiste nell’uso delle torri; se un tempo esse erano adibite prevalentemente o quasi esclusivamente a uffici, oggi ospitano appartamenti, hotel, spazi commerciali, ristoranti... Per esempio: il primo "inquilino" di Burj Khalifa (questo il nome vero della megatorre del Dubai) è stato l’Armani Hotel, che a fine aprile ha aperto le sue 160 stanze iperlussuose (il prezzo più basso per notte pare sia di 750 dollari più le tasse), dislocate ai primi 8 piani e poi ancora ai livelli 38 e 39.A Shanghai, dove ora c’è il maggiore agglomerato di torri del mondo, si sta per costruire Shanghai Tower, che con le vicine Jin Mao e World Financial Center (entrambe superiori ai 400 metri) costituirà il trio più longilineo del pianeta. Shanghai Tower sarà alta 632 metri e i suoi 121 piani ospiteranno ristoranti, hotel, negozi e uffici, intervallati da aree a parco in quota: spazi pubblici che rievocano la vita per le strade tipica della città tradizionale cinese – stando a quel che dicono i progettisti del gruppo Gensler. Il tutto avvolto in un forma che ricorda quella dei cartocci rigirati stretti, con superfici di curvatura variata, studiata in modo tale da offrire la minor resistenza possibile ai venti. Sarà il simbolo della Cina nuova, dinamica, emergente nel consesso delle nazioni.E l’India non è da meno: all’inizio di giugno il gruppo immobiliare Lodha ha annunciato la costruzione a Mumbai dell’edificio abitativo più alto del mondo: si chiamerà World One, è firmato da Pei Cobb Freed & Partners (gli stessi dell’Altra Sede della Regione Lombardia) con Leslie E. Robertson, sarà alto 450 metri e i suoi appartamenti saranno destinati al ceto emergente: il più piccolo (117 metri quadrati) costerà 1,5 milioni di dollari. «Ogni città globale – ha detto Abhishesk Lodha – è resa memorabile da un simbolo. World One sarà l’icona giusta per Mumbai».La crisi incalza. Si perdono posti di lavoro, la gente impoverisce, eppure da Sydney a Guadalajara (in Messico), fioriscono i progetti di nuove torri, in genere destinate a una clientela privilegiata di abbienti, perché gli edifici a torre, oltre che "landmark", sono manifestazioni di un nuovo lusso in un mondo in cui c’è chi deve restare coi piedi per terra e chi può, letteralmente, camminare tra le nuvole.