Scenari. Cosa leggevano i Grandi della storia. E cosa manca oggi
Elaborazione grafica di Massimo Dezzani
Difficile dire in breve quali fossero i livres de chevet di Napoleone, dato che la sua biblioteca da campo contava un migliaio di volumi, ma ne avrebbe voluti tremila. Religione, epica, teatro, poesia antica e moderna, romanzi, storia, biografie di uomini illustri i “generi”. «Un bibliofilo alla conquista del mondo» lo definisce Fernando Gentilini in I demoni. Storie di letteratura e geopolitica (Baldini+Castoldi, pagine 360, euro 20,00). È solo uno dei casi, da Alessandro e Augusto a Putin passando per Carlo Magno, Richelieu, Caterina di Russia, Bismarck e Cavour, raccontati dall’autore, diplomatico di lungo corso con esperienza in gestione di crisi internazionali, affari europei e multilaterali, tra Balcani Occidentali, Afghanistan, Medio Oriente, e ora di stanza a Bruxelles, dove si occupa della creazione dell’Accademia diplomatica europea. Il volume, che verrà presentato domani a Milano, nella libreria Rizzoli di Galleria Vittorio Emanuele (ore 18), traccia un profilo del “libro” – tra titoli, lettori e scrittori – come motore della storia. « La mia intenzione – spiega Gentilini – è mostrare come la geopolitica non basti da sola a spiegarci quello che succede. Serve altro. Le scelte non sono basate solo sul calcolo ma esiste una parte irrazionale, fondamentale, le cui radici affondano negli istinti, nelle tradizioni, nelle mitologie. E nei libri. A muovere le cose è ciò che abbiamo dentro di più impalpabile come le passioni. La geopolitica non ne tiene conto, la letteratura sì».
Nella prima parte dei Demoni la spinta arriva soprattutto dal mito letterario: Troia, Alessandro, Roma… Con la modernità però sembrano prendere sempre più campo i “miti” della filosofia politica, da Machiavelli a Hobbes a Diderot.
Sì, c’è uno spostamento e credo che faccia parte del corso dell’evoluzione storica: ma sitratta sempre di libri. Il fatto è che la linea prosegue con l’odierna perdita di forza del libro, che indebolisce anche la cultura. L’esito di questa “morte del libro” è soprattutto una morte della lettura da parte, ma non solo, della classe politica, con un conseguente crollo di capacità di analisi e immaginazione. Henry Kissinger, nel suo libro sulla leadership del 2022, la chiama perdita della deep literacy, l’alfabetizzazione profonda. E questo spiega bene il momento in cui ci troviamo: c’è poca capacità di metabolizzare i concetti e l’informazione è preponderante rispetto alla conoscenza. E di conseguenza la capacità di analizzare e immaginare. Il sovranismo ne è un fenomeno.
È interessante come in parallelo a tutto questo ci sia un ritorno di spinta dell’elemento mitologico. Lei lo riconosce nelle basi ideologiche di Putin, ma anche – in termini più positivi – nelle serie televivise che hanno sostituito la letteratura nel dare forma al background sociale.
È una chiusura del cerchio. Assistiamo a un ritorno delle mitologie ma anche delle cosmogonie, proprio in una fase in cui sono crollate le certezze e siamo entrati in territori nuovi. L’ultima parte del libro, dedicata ai frammenti del XXI secolo, è stata quella più complessa da scrivere. Nel cercare di dare una risposta al quesito se esista ancora il libro o se è soppiantato da altri contenitori di narrazioni, il campo di indagine si è spostato su un terreno meno razionale. Io penso che il libro esista e continuerà a esistere ma, come tutto, si trasforma, diventa altro, si ibrida, recupera la componente visuale. Viviamo in un momento in cui le cose si mescolano molto più di un tempo. E ci sarà forse un momento in cui la gente si ribellerà ai frammenti perché avrà ancora voglia del tutto.
Lei individua alla radice della debolezza dell’Unione Europea una mancanza di cultura letteraria di chi ne formulò i modelli.
L’idea di una Europa unita è un “demone” che percorre la letteratura e il pensiero del Continente e ha alimentato secoli di politica, anche egemonica. Nella fase costitutiva dell’Europa comunitaria, nel dopoguerra, c’è stato un approccio burocratico e poco letterario, nel senso dell’incapacità di profondità e profezia, e in questo modo si sono perse grandi occasioni. Non tanto nei padri fondatori, ma in chi ha dato forma reale al processo di integrazione. Le intuizioni di Altiero Spinelli, molto più ambiziose e radicate in un substrato letterario, sono state ignorate in favore della politica dei piccoli passi ideata da Jean Monnet, un uomo pratico i cui ricchissimi Mémoirs citano, e per una breve paginetta, un solo scrittore: Saint-Exupéry e più che altro come uomo d’azione. Tutto questo, io credo, ha autocertificato la debolezza originaria del progetto europeo, che non è riuscito a sognare veramente. La letteratura può essere sempre un garante dell’arte di governare. C’è la ricerca di spessore, la voglia di comprendere. Certo, tutto questo non ci salva, si pensi a Mao o Stalin, grandi consumatori di letteratura. Dei quali, però, si può dire tutto tranne non che fossero persone in grado di capire in profondità i problemi.
Il libro, per ragioni di spazio, racconta una storia occidentale. Quello che sta accadendo nel mondo, ad esempio tra Israele e Gaza, ha alle spalle altri “demoni”, per noi meno visibili perché non rientrano nella nostra cultura?
I demoni stanno dappertutto. Anche tra israeliani e palestinesi molte decisioni vengono dai miti, dalle tradizioni, dagli istinti. Cosa ci può essere nella testa di Netanyahu? Dice di aver letto Machiavelli, è un cultore di Churchill, si vanta di avere applicato la dottrina degli economisti della scuola di Chicago. Ma se si osserva da dove viene la sua famiglia, chi è il padre, quali sono i suoi pilastri ideologici certe scelte, come quella di non negoziare con i palestinesi, appaiono più chiare. Il padre fu ammiratore di Herzl, il fondatore del sionismo, e conobbe Ze’ev Jabotinsky, di cui sostenne la visione politica per la quale non ci può essere spazio per i palestinesi e e un loro Stato. Quello di Netanyahu è il sionismo revisionista di quest’ultimo. Allo stesso tempo se si leggono alcuni poeti palestinesi, come Mahmoud Darwish, si possono trovare le agende politiche e le rivendicazioni di questo popolo. Ma si può guardare anche altrove.
Per esempio?
All’Accademia diplomatica europea tengo una lezione agli studenti su perché c’è la guerra in Ucraina e non a Taiwan. Per quali motivi la Russia ha deciso di partire lancia in resta e la Cina invece sembra temporeggiare? Se prendiamo due libri come Della guerra di von Clausewitz e L’arte della guerra di Sun Tzu, si possono individuare dinamiche e modelli che stanno dietro le due scelte. Si può spiegare il conflitto ucraino come un conflitto veramente europeo, alla von Clausewitz, e l’altro come un conflitto asiatico, nella linea di Sun Tzu per il quale l’eccellenza è vincere senza fare la guerra. Nel gioco dello xiangqi, gli scacchi cinesi, regna una cultura dell’accerchiamento strategico: perde chi non riesce più a muoversi. Così è a Taiwan. Anche questa è una questione di demoni.