Potenza della distanza. E delle differenze. Enorme, la prima. Come pure le seconde. Te ne vai in giro e appena incroci lo sguardo di qualcuno che non abbia gli occhi a mandorla ti viene spontaneo sorridergli, sicuro che l’altro ricambierà. Per un attimo, ti senti a casa. Anche se ne sei lontano migliaia di chilometri e magari la persona a cui hai sorriso, ricambiato, neppure vive nel tuo continente. Figurarsi se incroci lo sguardo e ascolti le parole di qualche italiano: salutarsi diventa quasi un obbligo, scambiare chiacchiere e impressione è consequenziale. Tokyo, nei pressi del Palazzo Imperiale, nel quartiere di Chiyoda, centro della città. Due ragazze, lineamenti mediterranei, lingua italiana, arrivano da Roma, studiano il giapponese. Sorrisi, saluti, parole. E una domanda, da chi si sente in posizione di forza: «Come fai a districarti nella metropolitana senza conoscere il giapponese?». Vero, non lo conosco, neanche un po’. Eppure, non c’è nulla di più facile che orientarsi nella metro più intricata del pianeta. Un dedalo di linee che si incrociano, chilometri e chilometri di binari che servono la metropoli, una marea di stazioni che dal sottosuolo ti riportano in superficie, per di più un sistema gestito da più società, con qualche aggravio (più che altro, economico) quando c’è da transitare da una linea all’altra, se appartenenti a differenti aziende. Unico problema, la lingua. Se non ci fossero indicazioni pure per chi arriva da Occidente.
E allora, nulla di più facile, perfino in un sistema metropolitano forse unico al mondo. Talvolta, sembra di infilarsi in un cunicolo, per poi ritrovarsi in una città nella città, soprattutto in alcune stazioni, quelle più grandi, collegate a quelle ferroviarie. Spesso, una caotica orgia di gente, un susseguirsi di negozi, un