Scenari. «Metromontagna»: vivere nelle aree montane come in una grande terra di mezzo
La Valsusa vista dalla Sacra di San Michele
«Milano via della Spiga-Hotel Cristallo di Cortina: 2 ore, 54 minuti e 27 secondi. Alboreto is nothing!». Anche dietro una battuta da cinepanettone si cela una visione del mondo: quella nella quale tra Milano e Cortina d’Ampezzo non c’è altro che uno spazio vuoto, da colmare nel tempo più breve possibile; in mezzo, il nulla. A vederla così non è soltanto il Guido Nicheli di Vacanze di Natale di Carlo Vanzina (1983): è lo stesso sguardo della celeberrima Heidi, l’eroina di Johanna Spyri (1880) divenuta, grazie soprattutto alla serie animata di Hayao Miyazaki (1974), il referente universale dell’immaginario montano. Da una parte la città, dall’altra la baita isolata; in mezzo, neppure il villaggio di fondovalle. Ed è sempre lo stesso sguardo che ha portato alla creazione, sulle Alpi, di quartieri satellite delle metropoli di pianura, loro appendice con una precisa destinazione funzionale, il tempo libero; in Italia esemplare il caso di Sestriere, sorta dal nulla negli anni Trenta.
La montagna è compresa esclusivamente alla luce della visione della città: o come fondale “incontaminato”, meglio se anche un po’ “selvaggio” (fino ad arrivare a ricondurre anche gli europeissimi montanari al mito del buon selvaggio di settecentesca matrice); o come parco giochi attrezzato. Non è ancora condivisa la percezione di quanto la montagna sia un’invenzione di immaginario, mitopoiesi che ha alle spalle una storia plurisecolare (ben ricostruita qualche anno fa da Antonio De Rossi in La costruzione delle Alpi, Donzelli) e che può vantare come padre fondatore il ginevrino (un cittadino, quindi) Horace-Bénédict de Saussure con Voyages dans les Alpes (1780-1786). Un percorso tanto lungo, ormai, che gli stessi montanari ne hanno perso la percezione, essendosi adeguati alle aspettative dei danarosi villeggianti che salivano tra di loro in cerca di idilli coincidenti con quelli delle cartoline illustrate o a rispondere alle ambizioni degli sciatori e degli alpinisti della domenica.
Lo spopolamento della montagna e l’abbandono del territorio, prezioso paesaggio plasmato nel corso dei millenni, deriva più da questa distorsione percettiva che dal pur concreto disagio economico (che forse ne è più figlio che padre). Viene dall’associazione Riabitare l’Italia una proposta di inversione di rotta – culturale, sociale, economica –, che è anche un neologismo e il titolo di una raccolta di studi: Metromontagna (Donzelli, pagine 266, euro 19,00). L’idea di fondo è smettere di pensare centro e periferia come polarità contrapposte e iniziare a concepirle come unità.
«In un Paese fortemente policentrico come il nostro – osservano i curatori, De Rossi e Filippo Barbera – i confini tra le aree urbane e montane sono nei fatti sfumati»: una condizione chiaramente mostrata da questi mesi di pandemia e di distanziamento, durante i quali il telelavoro e le altre possibilità tecnologiche hanno portato molti alla tentazione (e alcuni alla realizzazione) di spostare la propria residenza fuori dai centri urbani. Non separandosi dalla città, ma continuando a viverla in modo diverso: “metromontano”, appunto.
L’attività lavorativa, i consumi culturali, la vita relazionale e sociale possono slegarsi da una collocazione spaziale definita e limitata, e spesso hanno iniziato a farlo; grazie alle tecnologie, ma soprattutto grazie all’affacciarsi di una nuova visione del mondo. Si tratta di un processo appena agli albori in Italia, più radicato in altri Paesi occidentali, che ha bisogno di essere alimentato per procedere: ma il cui successo potrebbe rivestire un ruolo di rilievo nel futuro di tutti.
«La “metromontagna” – scrive nel suo contributo Mauro Varotto, che l’anno passato ha pubblicato con Einaudi il significativo studio Montagne di mezzo –, secondo la definizione coniata da Giuseppe Dematteis, è un cortocircuito, che mette insieme due polarità che l’età contemporanea ha concepito in termini antitetici»: in un Paese come il nostro, dove la montagna o comunque le “terre alte” rappresentano gran parte della superficie, significa mettere ai margini gran parte del territorio – salvo riscoprirlo, e prontamente ridimenticarlo, al primo incendio o alla prima inondazione.
Stenta a prendere piede, in ambito sia cultuale sia politico-economico, un discorso sistematico sulle “aree interne”, pur al centro di progetti sperimentali come la Strategia nazionale per le aree interne italiana (Snai) o i Gruppi di azione locale europei (Gal); anche per accendere i riflettori su di esse recentemente la metropolia di Benevento ha promosso un’iniziativa interamente dedicata al tema.
Obiettivo è connettere i centri urbani scaglionati lungo gli assi di pianura, o lungo le coste, con le terre alte che le attorniano; e «oggi – argomentano Barbera e De Rossi – l’infrastrutturazione prioritaria è quella digitale». Si tratta di rispondere a esigenze di “progetti autobiografici” che con la pandemia hanno registrato un’accelerazione: trasferirsi in piccole comunità, intersecare il proprio (tele)lavoro nella città con nuove attività legate al territorio, al suo paesaggio e al suo tessuto sociale fatto di comunità e prossimità. Un processo che richiede visoni di lungo termine, capaci di dialogare con i territori e di superare strutture amministrative obsolete.
La montagna, la mezza montagna, le aree interne, la pianura non urbana e le città sono ormai parte di un unico insieme. La sfida è governarlo, e l’Italia potrebbe sfruttare – anche se i tempi sono già ristretti – un formidabile volano: quello delle Olimpiadi del 2026. L’imponente sforzo organizzativo richiesto dall’evento, se si plasmasse sui principi di una connessione “metromontana”, potrebbe divenire un modello per tutto il Paese. Altrimenti, quel “Milano- Cortina” rischia di restare soltanto una battuta.