Da quasi novant’anni, per convenzione, gli itinerari alpinistici si “misurano” in gradi di difficoltà e, di conseguenza, anche la “qualità” degli alpinisti che li salgono è sottoposta allo stesso metro di giudizio. Essere considerato un buon “sestogradista” significava, un tempo, entrare nel ristretto numero dei migliori, mentre oggi i fuoriclasse del
free climbing hanno ormai da tempo abbattuto anche il limite del decimo grado. Ma possedere la capacità di superare pareti, strapiombi e ghiacciai, non fa automaticamente un “buon” alpinista. Lo ricorda Reinhold Messner nel suo ultimo libro
Cervino, il più nobile scoglio” (Corbaccio, pagine 252, euro 16,90), uscito in occasione del 150° anniversario della prima salita della Gran Becca, effettuata nel luglio del 1865. In quei giorni, sulla montagna si scatenò una vera e propria corsa alla vetta tra le due cordate rivali guidate dall’inglese Edward Whymper e dalla guida italiana Jean Antoine Carrel. A spuntarla fu il giovane vittoriano, ma dei sette componenti della cordata, quattro persero la vita durante la discesa. Whymper si salvò insieme a due guide locali. Da qui prende le mosse Messner, che ha deciso di raccontare la vicenda mettendo in evidenza il diverso «senso di responsabilità» di Whymper e Carrel.
Perché ha scelto questa chiave di lettura?«Avendo letto il libro di Whymper, uno più belli della letteratura alpinistica, mi sono però accorto che l’inglese è riuscito a scaricarsi totalmente della propria responsabilità, mettendola per intero sulle spalle di Peter Taugwalder, una delle guide che lo accompagnava e che è riuscito a sopravvivere ma poi, sotto il peso di questa accusa, è crollato psicologicamente fino a morirne. Allora mi sono messo a studiare bene il caso e mi sono accorto che, invece, Carrel si comporta sempre con un grande senso di responsabilità personale. La prima volta che incontra Whymper, nel 1861, gli dice che non andrà con lui se non potrà portare una seconda guida perché altrimenti non avrebbe la garanzia di portarlo in salvo se dovesse succedere qualche cosa. E alla fine Carrel muore, scendendo dal Cervino nella bufera, perché si carica, fino alla fine, la responsabilità dell’incolumità delle persone a lui affidate. Sta in questo, a mio avviso, la grandezza della vicenda perché uno, Whymper, che diventa l’eroe, in realtà non corrisponde all’ideale di chi va in montagna con responsabilità. E l’altro, Carrel, apparentemente sconfitto, dà invece al cliente la possibilità di salvarsi e solo quando è certo che i suoi compagni sono al sicuro, si “permette” di morire».
Che cosa insegna questa vicenda a chi oggi pratica la montagna e l’alpinismo?«L’alpinismo tradizionale è un’attività che si svolge sotto la responsabilità personale. Se io vado da solo in montagna tutta la responsabilità è mia. Se mi succede qualche cosa non posso dire che non è venuto l’elicottero a prendermi. Se andiamo in due la responsabilità è condivisa. Ritornando al Cervino. Abbiamo un esempio positivo, Carrel e c’è l’esempio negativo di Whymper. Che è rimasto la figura eroica del Cervino soltanto perché nessuno mai ha messo in evidenza la sua mancanza di responsabilità. Che non è astratta ma, appunto, personale».
Ci sono altri esempi di questo tipo nella storia dell’alpinismo?«La stessa cosa è capitata nel 1954 sul K2 quando Compagnoni scaricò su Bonatti la colpa dei congelamenti subiti dal portatore Mahdi. Per fortuna Bonatti, pur soffrendo per cinquant’anni di questa accusa, non crollò mai».
In questi anni il Club alpino italiano ha dibattuto molto intorno al tema della libertà in montagna. Responsabilità e libertà sono ancora una cordata affiatata o il rapporto si sta sfilacciando?«Se parliamo di alpinismo tradizionale, la libertà e la responsabilità sono sorelle. È molto chiaro. Se rivendico la libertà di fare quello che voglio mi assumo tutta la responsabilità. Le cose cambiano negli ultimi trent’anni, perché sempre di più le vie in montagna sono preparate: con spit, con ferrate o anche la via attrezzata sull’Everest da cento sherpa. Questa è un’altra cosa rispetto all’alpinismo, qui parliamo di turismo. Chi fa turismo in montagna prepara un’infrastruttura affinché il cliente possa salire e la responsabilità di tutto è di chi ha costruito l’infrastruttura. L’alpinismo, invece, è possibile dove non c’è alcuna infrastruttura, nel mondo selvaggio, dove tutta la responsabilità è in capo a chi lo pratica».
Nella sua carriera di alpinista le è capitato che il suo senso di responsabilità limitasse in qualche modo il suo spirito di libertà e di avventura?«Certo, è successo. La responsabilità ti dice istintivamente, non razionalmente: “Non oltre, diventa troppo pericoloso”. Oggi noi andiamo in montagna come Whymper è andato sul Cervino. Ma poi, in discesa, sono cominciati i problemi e così uno è caduto e ha trascinato altri quattro nel baratro. Qui scatta il senso di responsabilità, anche se io non parlo mai di colpa. Nell’alpinismo la colpa non c’è, perché l’incidente capita, nessuno lo fa appositamente. E se noi ci ficchiamo in una situazione da cui è quasi impossibile uscire, l’istinto ci può aiutare a venire fuori anche dall’impossibile, ma non tutte le volte va bene. E io lo so bene, perché sul Nanga Parbat nel 1970 volevo scendere dalla cima perché vedevo che mio fratello Gunther lentamente crollava per il mal di montagna, ma non avevo la possibilità di scappare via o di chiedere aiuto a qualcuno. C’era la necessità di tentare tutti e due di scendere su un’altra via sperando di uscirne per miracolo. Alla fine la responsabilità è stata mia soltanto perché sono stato l’unico sopravvissuto».
A proposito di montagna addomesticata: che cosa ne pensa della fiction che la Rai sta girando sul Monte Bianco?«Il Monte Bianco non è un palcoscenico né un parco giochi. Ma a settant’anni ho deciso di non arrabbiarmi più, osservo queste cose e sorrido. L’alpinismo diventa sempre più show, è sempre più uno sport. Ma questo non è più alpinismo, e un’altra cosa. Alpinismo è andare dove altri non vanno, prendendosi la libertà di farsi guidare dal proprio entusiasmo ma assumendosi anche tutta la responsabilità di ciò che si fa. Questi vip che vanno in questo modo sul Monte Bianco non si prendono neanche un pizzico di responsabilità e quando hanno un piccolo problema arriva l’elicottero e li porta giù».
Insomma, la tecnologia sta lentamente annacquando il senso di responsabilità?«Oggi ci sono ventenni che salgono sulla Nord dell’Eiger sapendo che, con il telefonino in tasca, possono chiedere aiuto in caso di necessità. E lo stesso succede anche davanti a casa mia, dove hanno recentemente aperto una via ferrata. Quasi ogni giorno l’elicottero del Soccorso alpino deve intervenire per portare giù qualcuno che non è più capace di progredire. Ma quanto costa tutto questo? Quanti rischi si devono assumere i soccorritori? Nessuno ci pensa. Anzi, al minimo problema si chiama per farsi venire a prendere. Questo è la dimostrazione che la responsabilità, nella cultura dell’alpinismo, perde terreno, perché pensiamo che la montagna sia un parco giochi e non una cosa seria».