Agorà

EDITORIALE. Dalla Mesopotamia sale il monito: senza pace muore anche la cultura

Franco Cardini lunedì 19 agosto 2013
La mostra berlinese dedicata a quella che fu quasi certamente una delle prime città del mondo, e di certo comunque la prima megalopoli, è di un interesse superato forse solo da due altri sentimenti: la commozione e la preoccupazione. Commozione, in quanto siamo dinanzi a una delle radici più profonde della civiltà umana. Uruk, situata nell’area meridionale dell’Iraq di oggi, una ventina di chilometri a est dell’Eufrate e presso il centro di Warka, fu secondo la Bibbia uno dei primi centri abitati – il fondatore dei quali fu Nimrod, discendente di Caino, il più celebre tra i regnanti dell’era precedente il Diluvio e il responsabile, con la costruzione della Torre di Babele, della confusione tra le lingue e della dispersione del genere umano. La Bibbia presenta forti tracce di una tendenza antiurbana che si reincontra anche nei libri profetici: la città come luogo di tentazione, di peccato, di perdizione. Uruk, poi, è una città misteriosa: ne sarebbe stato re lo stesso Gilgamesh, il protagonista del poema accadico che narra le sue peripezie e la sua discesa agli inferi. Molti hanno indicato in Gilgamesh il modello mitico di Ulisse. Gli organizzatori della mostra berlinese non hanno certo trascurato questi aspetti mitici. Ma hanno preferito sottolineare come a Uruk, cinquemila anni fa circa, nacque il primo compiuto sistema di scrittura dell’umanità, che sarebbe stato utilizzato tra Iraq e Iran attuali per circa due millenni e mezzo. Un sistema a modo suo semplice, pratico, l’origine del quale sarebbe stata pratica e contabile: insomma, per rispondere alle necessità, appunto, di una società principalmente interessata a questioni economiche. Le ragioni e le necessità religiose e letterarie sarebbero venute più tardi. È possibile: ma per rispondere a un quesito così delicato sono necessarie ricerche archeologiche e antropologiche molto approfondite. Proprio da qui nasce il secondo dei sentimenti suscitati in noi, insieme con l’interesse, dalla mostra berlinese. Essa nasce dai risultati dell’attività di due sodalizi scientifici tedeschi, ch’era iniziata prima dell’invasione statunitense dell’Iraq voluta da George W. Bush. Un’invasione che ha causato, fra l’altro, non solo l’interruzione di un’importante ricerca in corso, ma anche la dispersione delle ricchissime collezioni del museo archeologico di Baghdad: e che ha compromesso la ricerca di molti centri di scavo archeologico, a cominciare da quello dell’antica Babilonia. La prestigiosa mostra berlinese giunge quindi a proposito per ricordarci quanto la scienza, la ricerca e la cultura siano strettamente e profondamente connesse non solo con l’economia e la tecnologia – senza fondi adeguati e senza mezzi aggiornati non si scava, non si studia, non si pubblica –, ma anche con la politica internazionale. I problemi connessi con il ritorno all’ordine e a un’accettabile normalità in Iraq dieci anni dopo l’invasione sono ancora lungi dall’essere risolti: e la comunità internazionale non è stata in grado di intervenire efficacemente in un Paese ancora in parte soggetto ai postumi dell’occupazione e in parte dilaniato da lotte politiche e religiose e preda delle speculazioni selvagge delle lobby del petrolio. Gli organizzatori della mostra di Berlino, con prudenza e discrizione, hanno forse voluto segnalare anche questo: per salvare un patrimonio archeologico e culturale che appartiene all’umanita` è necessario riportare a un normale livello di vita e di sicurezza il Paese.