Agorà

Idee. Memoria e lutto: digitale è immortale?

Alessandro Beltrami domenica 10 maggio 2020

«Non ce l’hanno fatta tutte le persone / sono andate via in silenzio come te, / senza un bacio, una carezza, una ragione / senza un “mi sun chi e te vöri ben”», canta Fabio Concato in L’Umarell, ballata tanto più commovente quanto più gentile sul tempo del Covid–19. Un tempo che, fino a lunedì scorso, ha reso inaccessibile lo spazio della celebrazione del commiato, esiliando l’elaborazione del lutto in un limbo di rimpianti e domande senza risposta. Nell’impossibilità di una dimensione comunitaria, i social sono diventati così il luogo privilegiato di commemorazione. Il ricordare pubblicamente queste morti sembra essere una necessità primaria. Il Gruppo Gedi ha attivato il portale memorie.it con lo scopo di “creare un luogo digitale capace di conservare la memoria del nostro Paese, colpito pesantemente da questa emergenza sanitaria”. Nelle sue pagine confluiscono le storie raccontate dalle testate giornalistiche del gruppo ma è possibile a ognuno segnalare una scomparsa.

L’iniziativa particolare si inserisce in un mondo assai più ampio costituito da social network dedicati alla morte e alla memoria, da World Wide Cemetery (fondato nel 1995) a MyDeathSpace. L’industria ha sviluppato urne digitali, lapidi con QR code, griefbot ovvero ricostruzioni tramite algoritmi della personalità del defunto (voce compresa), con cui dialogare. È solo di poche settimane fa la notizia della ricostruzione digitale di una bambina morta, per consentire alla madre di reincontrarla nella realtà virtuale. Il sito digitaldeath.com propone la gestione dell’eredità informatica costituita dai beni digitali: “Le vostre foto, i vostri post sui social media, la vostra musica, i libri e altri beni digitali sono una parte fondamentale della vostra eredità. Continueranno a vivere anche dopo la tua morte? Se sì, chi ne controlla l’uso quando non ci siete più?”. Il motto è “Because on the internet, you can live forever”.

Per quanto socialmente rimosso o reso remoto dai progressi della scienza medica, il pensiero della morte riemerge prepotente. Ma ora a occuparsene è la tecnologia, non solo riempiendo gli spazi ultimi fino a poco tempo fa campo della religione ma configurandosi ormai essa stessa come fenomeno religioso (e di “religione della tecnologia” parlava già 20 anni fa Noble). La possibilità di una memoria eterna come quella informatica (o il suo miraggio, per via della rapida obsolescenza tecnologica) è diventata dunque una strada per l’immortalità. «Gli esseri umani, costrutti storici la cui contingenza dipende dai continui progressi tecnologici in itinere, hanno imparato a sviluppare – ciascuno – più “anime informazionali”. Reciprocamente connesse all’interno dell’infosfera, tali anime occupano spazi in cui non vi è distinzione tra individui naturali e agenti artificiali. (…) Come emerge dagli studi interdisciplinari che riguardano la Digital Death, i nostri io digitali pervengono, sotto forma di spettri tecnologici, a quella vita eterna preclusa al loro gemello biologico, ancora in balia dei capricci del Tristo Mietitore». Così scrive Davide Sisto in Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio (Bollati Boringhieri, pagine 160, euro 17,00). Il punto è, secondo Sisto, che «l’epidemia di ricordi» a cui è sottoposto il web, sta dando vita a una vera propria «rivoluzione antropologica ». I social network, e in particolare Facebook, hanno avviato da tempo una riconversione da spazio di relazione a gigantesco archivio di ricordi, facendone una sorta di grande autobiografia collettiva. Con la simbiosi di quello che un tempo era chiamato reale e virtuale, cadute le barriere tra off line e on line, si è aperta la dimensione dell’on life.

La rivoluzione antropologica consiste dunque in un nuova spazialità e temporalità. Con l’accesso simultaneo a tutti gli strati del nostro habitat, in un processo fortemente entropico, abbiamo demolito il dualismo passato–presente, o meglio fuso “tempo accumulato” e “tempo che scorre”, e conquistato il dono dell’ubiquità. Negli spazi aperti e indistinti della dimensione digitale i ricordi si emancipano e si moltiplicano in identità «fondate sulla relazione, sull’interattività e sullo scambio». Sottratte alle leggi della fisica – il corpo del ricordo digitale, come quello dei santi, non sembra essere soggetto a corruzione – queste identità sono destinate a esistere anche quando chi le ha prodotte non sarà più, continuando «a vivere e a essere attive in maniera autonoma» perché «l’interazione tra i dati e tra le identità digitali è anche postuma». L’accumulazione esponenziale di ricordi e in parallelo la morte degli utenti dei social (si stima che tra 2070 e 2098 Facebook vedrà il sorpasso degli account dei profili di deceduti su quelli dei vivi) stanno ibridando queste piattaforme con quelle che Sisto chiama “enciclopedie dei morti”. Eppure archivio e enciclopedia prevedono un ordinamento, una gerarchia. In questi spazi invece «si elimina la distinzione tra significativo e insignificante, tra ricordo e oblio: non esistono né particolari insignificanti né una gerarchia di eventi». Il tutto coincide con il totale. È il sogno del Total Recall, la memoria totale inseguita da Gordon Bell e Jim Gemmell, due ricercatori della Microsoft che dal 1998 registrano e archiviano tutto ciò che vedono, sentono e imparano. Si tratta di un progetto per espandere la memoria umana alzando un argine contro l’oblio, considerato in termini patologici.

Eppure l’oblio è una operazione vitale della memoria. Patologico è semmai lo stato di chi ricorda tutto. Il dimenticare è essenziale: senza la selezione e la ricostruzione/reinvenzione in una sequenza le informazioni costituiscono un ammasso di macerie in cui è indistinguibile l’utile dalla scoria. In ogni caso nella Silicon Valley il passaggio dalla memoria totale all’immortalità digitale è stato breve. Si parla di “datismo”, o religione dei dati, in cui l’imperfetto essere umano è sostituito «da algoritmi computerizzati in grado di ridefinire autonomamente i contorni delle sue esperienze». L’insieme dei ricordi di una persona diverrà così un’altra persona, del tutto autonoma, destinata a ricostruirci o sostituirci post mortem. Il tentativo di costruire una sorta di giardino di Armida della memoria, contro l’ordine naturale delle cose, ha alla sua radice il rifiuto del lutto proprio della società contemporanea: «Dal momento che facciamo finta di vivere come se non si dovesse mai morire – annota ancora Sisto – perché non tentare allora di realizzare una vera e propria immortalità digitale?».

Il tema è affrontato da una prospettiva diversa e complementare da Antonio Loperfido, psicologo e psicoterapeuta, in Ti ricorderò per sempre. Lutto e immortalità artificiale (Edb, pagine 200 euro 17,00). Il volume è una raccolta di interviste, commentate, a persone che hanno perso un parente per motivi tragici (suicidio, incidente, malattia), chiamate a riflettere sulle possibilità offerte dal digitale. La domanda di fondo è: “La tecnologia aiuta a ricordare i propri cari?”. La simultaneità dell’on life ha cambiato i concetti di attesa e pazienza. Anche il lutto va superato in fretta: ma su questo aspetto il dato antropologico, specie se le perdite sono particolarmente dolorose come quella di un figlio, non è cambiato. Se per alcuni tra gli intervistati i profili Facebook degli scomparsi sono una riserva positiva di ricordi, come una scatola di fotografie, in generale la possibilità ad esempio di un griefbot è rifiutata con decisione, persino con spavento: «Vivere con una figlia nel chatbot o con una figlia robot sarebbe vivere continuamente nell’eterno ricordo – dice una delle intervistate – Non vivrei con una figlia virtuale perché non mi farebbe vivere nella mia vita reale, vivrei sempre in funzione del passato senza vedere il presente». Se il rifiuto verso queste soluzioni avanzato dagli intervistati è così netto, perché allora il proliferare delle proposte? Forse la particolarità del trauma è dirimente.

Eppure il proliferare delle iniziative indica la precisa esistenza di un mercato, un’offerta che genera una domanda. Secondo Loperfido questo tipo di relazione con il defunto alimenta una falsa credenza simile al comportamento delirante in psichiatria, perché è una simulazione di una realtà oggettivamente non vera. Il punto probabilmente sta qui: cosa ormai dobbiamo considerare come reale? I ricordi digitali si emancipano dal loro produttore, acquistano identità autonoma. La frontiera dell’intelligenza artificiale spinge verso il pensare dunque essere, come i replicanti di Philip K. Dick o gli androidi di McEwan. È dunque sulla pretesa metafisica della tecnologia che si gioca questa partita.