Agorà

Renzo Arbore. «Io e Mariangela Melato, storia di una passione»

Massimiliano Castellani martedì 9 maggio 2017

C’è forse un titolo letterario che meglio di ogni altro può sintetizzare la lunga relazione amorosa tra Renzo Arbore e Mariangela Melato: Storia di una passione di Anaïs Nin e Henry Miller. A quattro anni dalla scomparsa della grande attrice milanese, l’istrionico showman foggiano apre ad Avvenire lo scrigno dei ricordi per raccontare la sua Mariangela in tv. Un colloquio interrotto a tratti da attimi di intensa commozione, «perché – dice – la perdita di Mariangela è una ferita che il tempo non cura affatto ».

Arbore, ma quando è cominciata la vostra “passione”?

«All’inizio degli anni ’70. Mariangela l’avevo vista la prima volta a Roma, recitava al Teatro Sistina. La rincontrai a una premiazione e la invitai a una festa a casa mia in cui venne accompagnata da sua sorella Anna. Poi le diedi appuntamento per un’altra serata a casa del-l’attrice Agostina Belli. E lì successe un fatto degno di una sceneggiatura da film...».

Ce la racconti.

«Quella stessa sera capitò a casa mia Lucio Battisti, veniva a farmi ascoltare dei nuovi pezzi e allora gli dissi: “Dai, vieni anche tu alla festa...”. Per convincerlo lo rassicurai: “Lucio ti prometto che non ti metteranno una chitarra in mano”. Però quella sera stranamente Battisti trovò una chitarra, la prese e guardando me e Mariangela all’improvviso attaccò con un brano inedito, Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi. Un tonfo al cuore. Battisti fu il nostro “cupido” e quella canzone divenne la colonna sonora della nostra storia».

Una storia travolgente, destinata alla costruzione di una famiglia e invece poi ci fu la rottura…

«Siamo stati lì lì per sposarci, poi lei andò in America, mentre io vivevo la fase di stordimento per il grande successo televisivo. La passione andò un po’ scemando e ci siamo allontanati... “Dobbiamo continuare a parlarci, guai a diventare degli estranei”, mi ripeteva Mariangela. E così la storia è andata avanti ininterrottamente per più di quarant’anni, senza mai litigare davvero e soprattutto senza mai alzare la voce, riuscendo a sorridere dei successi personali ma anche delle piccole grandi disavventure che ci capitavano. Tutto questo grazie a una manopola interiore condivisa e una lettura della vita che faceva di Mariangela un’anima superiore».

Il suo ritratto di donna da compagno di vita è chiaro, ma l’Arbore uomo di spettacolo come valuta la Melato attrice?

«Un talento multiforme. In ogni campo in cui si è cimentata è emersa la sua straordinaria creatività, perfino nella pittura. Del resto aveva studiato all’Accademia di Brera. Di recente il regista e amico Marco Tullio Giordana mi ha fatto un grande dono: un autoritratto di Mariangela che realizzò ai tempi in cui stava girando La classe operaia va in paradiso di Elio Petri con Gian Maria Volontè. Si era raffigurata come la protagonista, Lidia, con il cappellino di lana in testa. Quel quadro è appeso qui in casa mia e lo conservo tra le cose più care».


Ha citato La classe operaia va in paradiso, forse uno dei film in cui la Melato espresse il meglio di sé sul grande schermo.

«Mariangela esprimeva sempre il meglio, in virtù di quell’eclettismo che ne fa una rarità assoluta nel nostro panorama artistico. Con una naturalezza estrema si calava nel ruolo drammatico della moglie di Moro in Todo modo per poi diventare comica, esilarante, interpretando la ricca milanese Raffaella Pavone Lanzetti di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller. E poi Mariangela ballava come una nera, cantava con un timbro swing e con quella voce duttile e un po’ roca quando era una ragazzina ai tavoli del Bar Jamaica di Milano la ribattezzarono “Satchmo”, come il grande Louis Armstrong – sorride –. Nemmeno la Magnani era riuscita a conciliare cinema, teatro leggero e impegnato e televisione come ha fatto lei».

Dei tanti registi che l’hanno diretta chi era quello che si era maggiormente legato alla Melato?

«Mariangela li ha stregati tutti, anche quei registi che avrebbero tanto voluto averla nei loro film o a teatro e non ce l’hanno fatta. Quando l’accompagnai sul set di Caro Michele ricordo il grandissimo Mario Monicelli che alla domanda di Mariangela “ma come devo farla questa scena?” rispose: “E lo chiedi a me? Inventati qualcosa, tu sai bene come si fa”. Lei sapeva sempre trovare la chiave interpretativa più efficace, così come aveva sempre la risposta giusta al momento giusto. Come con Luchino Visconti, per La Monaca di Monza quando le chiese di tagliarsi i capelli per interpretare in teatro il ruolo della novizia Mariangela ribatté pronta: “Ma io “Conte” mi taglio anche i piedi”…».

Forza, carisma e determinazione di una donna considerata un’icona del movimento femminista.

«Ma non era una femminista militante. La sua missione è stata quella di dare volto e voce a personaggi femminili coraggiosi. Quando le proposero Filumena Marturano non se la sentiva per via del napoletano: pensava che sarebbe stato un affronto troppo grande a Eduardo De Filippo. Poi però si convinse che non poteva rinunciare ad entrare nel corpo e nell’anima di una figura femminile così bella e potente».

Due personalità eclettiche come le vostre in quale campo artistico si incontravano?

«In quello della musica e delle canzoni popolari, Mariangela amava cantare le canzonette della guerra. Assieme a Luciano De Crescenzo, un’estate a Capri improvvisavamo le sceneggiate di Merola e le splendide canzoni di Murolo. Mariangela aveva un grande fiuto per il talento musicale: si emozionava ascoltando Cohen, Dylan o Aznavour che era un suo grande ammiratore. Insomma, partiva dai Legnanesi ma era in grado di arrivare al rock, passando per il folk siciliano e sconfinare fino al mio jazz».

Ma non vi ha mai sfiorato l’idea di un programma vostro?

«Parlammo di un “Cara Mariangela ti voglio presentare”, che poi ho realizzato per Totò. Avevamo pensato a una Melato story televisiva in quattro puntate, ma rimase un progetto sulla carta, tipo certe mie idee bizzarre quando le dicevo, tu dovresti fare un film con Bud Spencer… Ma era difficile smuoverla dalle sue convinzioni, Mariangela possedeva un codice di grande rigore, impossibile violare».

E la Melato quanto apprezzava il “codice artistico” di Arbore?

«Era un sensore sempre acceso. Mi censurava appena sfioravo la volgarità: ho imparato da lei a essere goliardico ma con gusto. Le mie trasmissioni in radio e in tv le piacevano molto. I concerti della mia Orchestra Italiana li trovava sempre bellissimi e ogni volta mi rincuorava: “Renzo non avere mai paura perché il pubblico è sempre con te”.

In una delle ultime interviste che concesse a Gianni Mura la Melato disse:“Renzo ha un garbo innato, una gentilezza spontanea che pochi uomini hanno”. Quale era invece il tratto caratteriale più marcato della sua Mariangela.

«La definizione più bella l’ha data una grande poetessa, Alda Merini: “Mariangela è piena di grazia”. La levità nell’affrontare anche il lavoro più duro era la sua cifra distintiva. Sul palco spesso ci rimetteva la salute, si fratturava, cadeva ma si rialzava subito con quella grazia che l’ha contraddistinta fino all’ultimo respiro… E io credo di aver adempiuto al mio dovere: stargli accanto fino alla fine, come avrebbe fatto un vero marito…».

Ci fermiamo qui? (Arbore è profondamente commosso al ricordo di quegli ultimi giorni di vita della Melato)… O c’è un’ultima immagine che ci può regalare?

«L’ultima volta che Mariangela venne ad assistere a un mio concerto al Sistina in pratica ci siamo scambiati la staffetta, lei aveva appena concluso le repliche del suo spettacolo teatrale. Vedendola in prima fila dissi al pubblico: “Su questo palco si sente ancora il profumo di una grande attrice...”. Lo sento ancora quel profumo. Così come continuo a girare la nostra manopola che ogni giorno mi avverte: questo piacerebbe a Mariangela, questo forse no...».