Quale religione sta dietro ad Apple? L’universo informatico inventato dal defunto Steve Jobs lo si può definire una “religione”? C’è un (qualche) Dio oltre la Mela addentata, simbolo (guarda caso, di chiara ascendenza biblica) di MacOs, il sistema operativo che fa da competitor a Windows, quest’ultimo più diffuso, mentre il primo è il più
à la page? Possono sembrare domande oziose, queste. E invece… Invece c’è chi, da questa e sull’altra sponda dell’Atlantico, ha messo sotto la lente di ingrandimento nientemeno che l’«immaginazione religiosa» dell’ideatore dei computer Macintosh. È il caso di
Appletopia. Media Technology and the Religious Imagination of Steve Job (Baylor University Press), documentatissimo saggio di Brett T. Robinson, docente di marketing alla Notre Dame University. Ma anche del più ridotto, ma comunque interessante,
Apple come esperienza religiosa (Mimesis) di Antonio Guerrieri, ricercatore in Diritto canonico alla Sapienza di Roma. I due indagatori dello “spirito” di Apple si trovano d’accordo: sì, usare un MacBook o un iPhone è qualcosa che a a che fare con «un’esperienza religiosa ». Lo spiega così Guerrieri: «Lo strumento di lavoro linguistico-concettuale meno azzardato e improprio per descrivere sentimenti e aspettative del devoto di Apple sembra essere l’espressione esperienza religiosa, più adatta a rappresentare fenomeni fluidi e relativamente inediti, e in cui gli elementi- tipo individuati dall’indagine fenomenologia in religioni e culti (ministri consacrati, luoghi deputati ai riti, preghiere, feste) possono essere assenti o presenti solo in parte o in modo meno pronunciato del solito». Prendiamo qualcuno tra questi elementi- tipo: secondo Guerrieri ci sono tutti nella religione-Apple. I ministri consacrati sono nientemeno che tutti gli utenti: «In che cosa si traduce la devozione degli utenti Apple? Anzitutto in una tensione proselitistica avente alla base la convinzione della bontà della proprie idee e degli strumenti tecnologici osannati (sforzo propagandistico del tutto gratuito); in una solidarietà tra i membri della comunità Apple in ordine all’utilizzo di Macintosh; e soprattutto – ed è forse ciò che è in grado di esprimere davvero un connotato religioso – un’attitudine capace di conferire (ancora una volta, tra i devoti Apple della prima ora e i loro genuini epigoni, con esclusione di chi ha fatto una semplice moda di iPod, iPhone e iPad) un nuovo significato a oggetti e esperienze inizialmente elitari e che dopo un momento “rivoluzionario” diventano comuni». Già Jacques Ellul, sferzante indagatore cui si deve un’analisi puntuta sui danni della tecnica – suo l’imprescindibile
Il sistema tecnico (Jaca Book), del resto citato da Robinson – lo evidenziava: «La tecnica crea un legame tra gli uomini. Tutti quelli che seguono la stessa tecnica sono legati insieme in una tacita fraternità e tutti hanno uno stesso atteggiamento verso la realtà». Poi: i luoghi “religiosi” della fede nella Mela sono i negozi Apple. Robinson evidenzia nel suo saggio che tali centri commerciali sono costruiti seguendo i canoni degli edifici sacri: «L’Apple Store è un santuario delle moderne tecnologie di comunicazione che ora realizzano nuovi compiti. Assomiglia a La Grande Arche di Parigi, entrambi rappresentano un ordine sociale che pare inviolabile, fortemente tenuto insieme da chi aderisce ai suoi ideali». Per preghiere e riti, basta citare una fonte insospettabile (lo fa Guerrieri). È il caso di Phil Schiller, vice-presidente senior della divisione Worldwide Product Marketing di Apple, il quale già nell’ormai lontanissimo 2002 affermava in una conferenza ad Harvard, riferendosi alla valanga di e-mail che la
corporate riceveva da parte di “adepti”: «C’è gente strana là fuori, e sembra avere una personalità con una forte propensione a legarsi a certe cose come se si trattasse di un culto. E devi averci a che fare, con queste persone, perché sono i tuoi clienti». Ma in cosa consiste precisamente «l’esperienza religiosa» di usare un Mac? Secondo Robinson in un tratto che si potrebbe far risalire a una tendenza protestante, ovvero la convinzione che l’umanità viva in «un mondo decaduto e che gli strumenti della scienza e della tecnologia ci diano l’abilità di redimerci e di perfezionare il nostro stato di caducità per indirizzarci su un cammino di perfezione». Ancora più radicalmente, l’autore della Notre Dame University afferma che «gli strumenti di Apple sono qualcosa in più di processori veloci; sono strumenti per cercare un senso perduto di trascendenza ». Da notare che il primo a classificare religiosamente Windows e MacIntosh era stato, già nel 1994, Umberto Eco, sempre attento ai nuovi media. Secondo Eco era invece Windows ad essere «luterano», anzi «calvinista», e invece il prodotto di Jobs «cattolico», per il fatto che quest’ultimo «è controriformista e influenzato dalla
ratio studiorum dei gesuiti». Non si può, infine, non ricordare la rivendicata appartenenza buddhista di Steve Jobs, il quale in gioventù aveva avuto esperienze spirituali in India. Rispetto a ciò Robinson decreta che tale esperienza è rintracciabile nel senso di «gnosticismo» presente in un MacIntosh: «Dal momento che la visione buddhista vede il mondo fisico e i corpi come sorgente di ogni dolore, il mondo digitale rappresenta la liberazione della mente e dello spirito dalla prigione del corpo».