Agorà

Verso il Meeting. Benvenuti nella bella Italia che cambia pelle

Giorgio Paolucci giovedì 3 agosto 2017

Adboulaye, senegalese, avvocato a Milano

C’è Abdoulaye, senegalese, primo avvocato di origine africana del Foro di Milano, suo padre negli anni Novanta vendeva accendini per campare. C’è Rambo (il nome è colpa del nonno, ammiratore di Sylvester Stallone), rom di origini bosniache, cresciuto tra le baracche dei campi nomadi, oggi educatore in una comunità per minori stranieri non accompagnati a Torino. C’è Juri, fuggito in braccio ai genitori dalla guerra fratricida tra hutu e tutsi in Ruanda, adesso canta e balla con gli amici di Termini Underground, una compagnia multietnica di giovani originari di 18 Paesi che fa le prove in un sotterraneo della stazione ferroviaria di Roma. C’è Luna, neodiplomata in economia e marketing a Fidenza, che il giorno dopo la strage del Bataclan ha indetto un’assemblea studentesca per dire a tutti che lei, marocchina e musulmana, odia quelli che usano la religione per giustificare le loro imprese di morte. C’è Monica, giovane studentessa universitaria di origine egiziana. C’è Agie, bocconiano con gli occhi a mandorla, che nella Chinatown milanese ha aperto una ravioleria dove propone le specialità della sua terra cucinate con ingredienti coltivati nelle campagne lombarde e piemontesi. Benvenuti nell’Italia che cambia, che ha i tratti somatici e il colore della pelle diversi da quelli a cui eravamo abituati, che fa i conti con lingue, tradizioni, culture, abitudini alimentari provenienti da tutto il mondo. Benvenuti alla mostra Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica, in preparazione per il Meeting di Rimini (20 al 26 agosto), e che in seguito diventerà itinerante.

Sono tanti, questi giovani volti, e saranno sempre di più. Se si sommano i minori stranieri residenti in Italia, quelli che hanno acquisito la cittadinanza italiana e i figli di coppie miste, si supera il milione e mezzo di unità. Ma delle “nuove generazioni” fanno parte anche migliaia di maggiorenni figli di genitori immigrati. La maggior parte di loro non si percepisce come straniero perché figlio di stranieri, ma come un nuovo italiano, al di là della nazionalità scritta sul passaporto. Per questo, più che di “seconde”, è più aderente alla realtà parlare di “nuove generazioni”. Si misurano con le tradizioni delle famiglie e dei Paesi di cui sono originari ma non vogliono esserne la fotocopia perché, come scriveva Romano Guardini, «nella monotonia del puro proseguire noi soffocheremmo». Nello stesso tempo fanno i conti con i valori e gli stili di vita incontrati qui, talvolta abbracciandoli totalmente, talvolta rielaborandoli alla luce del loro percorso umano.


La mostra propone di conoscerli, intercettare il desiderio di protagonismo e la positività che li muovono, descriverli nella loro com- plessità, fuggendo la tentazione di ingabbiarli in uno stereotipo. E lo fa con un percorso multimediale ricco di video e dati statistici, a cui si affianca la possibilità di incontrare alcuni dei protagonisti della mostra, ascoltare le loro storie e offrire momenti di dialogo con il pubblico durante dodici mini-incontri in una piazza appositamente realizzata all’interno dello spazio espositivo. Già in questi giorni una pagina Facebook propone anticipazioni di alcune storie.

Muovendo dal titolo del Meeting – «Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo», tratto da una frase del Faust di Goethe – la mostra si misura con alcuni interrogativi che accompagnano l’esperienza umana delle giovani generazioni, ma al tempo stesso interpellano ciascuno di noi, al di là delle origini e della cittadinanza: cosa significa e in che modo avviene oggi la trasmissione di una eredità? Cosa permette alla tradizione di essere una realtà vitale, e non solo la memoria sterile del passato? Che ruolo giocano nella costruzione dell’identità di queste persone la famiglia, la scuola e gli altri ambienti (anche virtuali) in cui crescono e si esprimono? Quali valori, quali proposte di vita incontrano in Occidente i figli di coloro che hanno lasciato i loro Paesi in cerca di una vita migliore? Per descrivere la condizione delle nuove generazioni, si ricorre spesso all’immagine di un mondo “sospeso tra due culture”. Ma, anziché di una sospensione, è più adeguato parlare di una appartenenza a più culture, di un’appartenenza multipla, che sceglie per sé il meglio di ciò che incontra nel cammino della vita, lo acquisisce elaborandolo in una nuova e originale sintesi fondata sulla libertà applicata all’esperienza personale. Come dice Mina, giovane egiziano protagonista di uno dei video: «Nell’arco della mia vita ho sempre cercato di prendere il positivo della cultura italiana e della cultura egiziana cercando di fonderli, di ricavare il migliore risultato possibile. Per questo mi reputo una pizza kebab, al cento per cento pizza e al cento per cento kebab, unendo entrambi in un solo risultato che cerca di essere il migliore possibile».


Anche se le decisioni parlamentari in merito alla proposta di legge per riformare le norme sulla cittadinanza sono state rimandate all’autunno, restano più che mai inevase le grandi questioni legate ai processi di integrazione e ai modelli di convivenza con popoli “lontani” che le migrazioni hanno trasformato, piaccia o non piaccia, nei nostri nuovi vicini di casa. I percorsi intrapresi dalle nuove generazioni indicano una prospettiva con cui la società e le istituzioni devono misurarsi: una integrazione costruita dal basso e con il concorso di tutti, un nuovo modo di concepire l’identità, termine molto usato ma spesso equivocato. L’identità non è qualcosa di statico e immutabile, né va usata come una spada da brandire per difendere il territorio dagli invasori che mettono in pericolo la nostra “purezza”. È una realtà dinamica, in cui la consapevolezza delle proprie radici si deve coniugare con la disponibilità a incontrare l’altro, a considerare il “tu” come una presenza necessaria per il compimento dell’“io” e per la costruzione di un nuovo modo di dire “noi”, una nuova moda-lità di concepirsi come appartenenti allo stesso popolo.

Se vogliamo trovare un termine adeguato, potremmo chiamarla “identità arricchita”: la linfa vitale necessaria perché cresca sano l’albero dell’Italia multietnica. Non è una formula magica, è un impegno in cui sono necessarie energie individuali e collettive. «Diventare un popolo – scrive Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium – richiede un costante processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia».