La mostra a Siracusa. I volti di Medea, uno specchio per la contemporaneità
Nicola Samorì, "Medea rende la giovinezza a Esone", 2023, particolare
Si resta sorpresi quando se ne acquista coscienza, ma il Novecento delle arti, che ha affrontato di petto ogni tabù possibile, ha pressoché ignorato Medea, soggetto invece ampiamente ricorrente nella storia. Non bastano Pasolini e un romanzo di Christa Wolf a compensare la lacuna. Perché Medea è scomparsa? Uscita dall’orizzonte aulico e morale che ha segnato l’arte fino a metà Ottocento, perché non ha attraversato il secolo più crudo? All’interno di Medea c’è più di un grande rimosso, è l’indicibile – senza genere – che sconcerta ogni volta che riappare.
A rimettere al centro la figura della maga della Colchide, che aiuta Giasone nella conquista del vello d’oro e uccide i propri figli per lucida vendetta contro il marito che la ripudia, arriva ora "Medea", una importante mostra, di respiro internazionale, curata da Demetrio Paparoni negli spazi riqualificati del’Antico Mercato di Siracusa (fino al 30 settembre), in occasione della messa in scena della tragedia di Euripide nel teatro greco.
Diciassette artisti provenienti da Europa, Caucaso, Cina e Sudest asiatico, si confrontano con il mito esplorandolo nelle diverse versioni e prendendosi carico della terribilità del tema. È quello che fa il grande trittico del thailandese Natee Utarit, con i corpi dei bambini in un labirintico interno borghese in cui il massimo della civiltà e il delitto più tremendo sono compressi in un silenzio glaciale. Daniel Pitín proietta l’incubo sull’immagine della propria famiglia. L’armeno Rafael Megall tritura i codici visivi del digitale e della tradizione della sua terra ricombinando natura, maternità e vendetta e generando, in una sintesi mobile di disiecta membra, una sorta di chimera. Chiara Calore ingrandisce e frammenta citazioni antiche e le rimescola in una pittura espressionista che guarda al digitale. Ruprecht Von Kaufmann omette Medea e muove l’attenzione sulla vendetta incapace di portare giustizia come motore della storia.
Ruprecht Von Kaufmann, “Medeas Erben”, 2023 - Cortesia dell'artista
Altri spostano lo sguardo dall’assassinio per recuperare la dimensione magica di Medea, come l’islandese Friðjónsson. Nel monumentale e magnetico lavoro di Nicola Samorì i corpi scabri e scultorei vibrano, quasi classicamente, del costante corpo a corpo con la tradizione. Francesco De Grandi propone Medea come dea bambina, selvaggia e preadamitica, proiettando la futura vendetta come reazione di una natura calpestata. La pittura rovente di Rusudan Khizanisvhili ne dà un’interpretazione panica, ancorata alle origini nella Colchide, l’attuale Georgia da cui proviene la stessa artista. Medea appartiene totalmente alla dimensione del rito, non ha ancora incontrato la ragion di Stato di Giasone. È la Medea di Ovidio, la donna che è in grado di far scorrere i fiumi verso la sorgente, ordina ai monti di tremare e quando recita le sue formule squarcia la gola alle vipere.
Nicola Samorì, "Medea rende la giovinezza a Esone", 2023 - Cortesia dell'artista
È Tiziano Scarpa nel suo testo da antologia pubblicato nel catalogo Skira a ricollocare la tragedia di Euripide nel contesto della legge promulgata da Pericle secondo la quale per ottenere la cittadinanza ateniese era necessario essere figli di genitori entrambi nativi di Atene. Una norma che spinse molti uomini a ripudiare mogli straniere per garantire legittimità alla propria discendenza. Entrano però in gioco questioni antropologiche molto più vaste. Medea non è solo una barbara ma un essere ferino entrato nella terra delle leggi. (Ed è forse tempo di prendere atto che questo ideale di purezza, questa convinzione di essere una casta di civiltà contro la barbarie che tanti disastri ha portato nella storia e tuttora porta, è il frutto più sgradevole delle nostre radici greche.) «Giasone è Atene che si illude di poter includere o escludere a piacimento dalla città le potenze dell’irrazionale – ma chiamarlo irrazionale è impreciso, riduttivo, semplificatorio: direi, meglio, le potenze di ciò che non ha nome».
La mostra di Demetrio Paparoni riporta al centro la necessità nella contemporaneità di un pensiero “mitico”, capace di affrontare la complessità dell’animo umano, contro cui invece va in frantumi il principio di non contraddizione di matrice positivista. Uno strumento che è proprio del pensare sacro. Allo stesso tempo è un pensiero oggi ancora più difficile, perché come ricorda Scarpa un mito «è il frutto di una lunga elaborazione collettiva, un’inventiva plurale, in cui i singoli poeti hanno aggiunto segmenti e derive». Eppure proprio gli artisti – nel senso più largo del termine – sono i soli che possono costruire una piattaforma per questa elaborazione. Se c’è un impegno nell’arte, al di là di una dimensione politica che si esaurisce nello slogan e nella cronaca, può essere forse soltanto questo.
Natee Utarit, "Two Boys and the Sacrifice", 2023 - Cortesia dell'artista