Quando scoppia la Grande Guerra, fra il luglio e l’agosto del 1914 don Primo Mazzolari è un insegnante di latino al ginnasio del seminario di Cremona, «e si annoia». Il giovane sacerdote mal sopporta questo incarico perché, lo ammette esplicitamente, «ha una vocazione di prete e l’insegnante lo può fare anche un laico». Ad evidenziarlo è il professore Giorgio Vecchio, dell’Università di Parma, uno dei più profondi conoscitori della biografia e degli scritti del parroco di Bozzolo. C’è uno scritto del giugno del 1914 che lascia pochi dubbi in merito: «Noia, caldo, caldo, noia all’infinito». Don Mazzolari vuol fare qualcosa di più che stare dietro a una cattedra. E quando cominciano a soffiare i venti di guerra, il suo desiderio di attivismo sociale cresce. Con le prime dichiarazioni di intervento, viene mandato «urgentemente» con l’Opera Bonomelli del suo vescovo (che poi morirà proprio in quei giorni) ad Arbon, nella costa svizzera del lago di Costanza dove stanno affluendo i nostri emigrati, che con la guerra devono tornare in Italia, dalla Germania, dal Belgio o dall’Austria. Con il console di Zurigo e l’Opera Bonomelli, don Mazzolari organizza un treno speciale per farli rientrare in patria. «Il suo primo contatto con la guerra è un impegno di accoglienza, dunque». Poi torna a casa. E in Italia e nella Chiesa fra il 1914 e il 1915 il dibattito su interventismo, neutralismo e pacifismo è acceso. «Don Mazzolari – continua Vecchio – gradualmente, ma con crescente decisione, si schiera per l’interventismo, discutendo con i giovani democristiani romagnoli, in particolare con il leader Eligio Cacciaguerra, con la consapevolezza di cosa sia la guerra, ma con l’idea che sia uno strumento per la giustizia». In Mazzolari c’è una forte componente patriottica che giorno dopo giorno si rafforza, insieme al pensiero che «il clero debba compiere una missione civile», che «essere prete ed essere soldato non sono in contraddizione», che «c’è un modo cristiano di fare la guerra». Frasi che vanno inserite nello spirito del tempo. E che dopo, lui stesso raffredderà, in una visione più pacifica e di fratellanza. In uno scritto del 1915 il compito del clero: «Quello di far capire la giustizia della guerra, anche alle masse di contadini che meno di tutti si rendono conto di quello che accade e interpretano la guerra solo come una sciagura», ricorda Vecchio. Il messaggio da trasmettere per don Mazzolari è quello di «ripristinare la giustizia» per la questione del Belgio e l’affermazione delle ambizioni italiane, in una «guerra dolorosa, ma necessaria», in linea con l’interventismo democratico. «Mazzolari esprimeva una posizione che era di altri cattolici, ma di minoranza – contestualizza la sua posizione, il professore Guido Formigoni, storico dell’Università Iulm di Milano –: la guerra come possibilità del cambiamento contro l’imperialismo. Il grosso del movimento cattolico è invece neutralista, almeno fino al maggio del 1915. Non è probabilmente un neutralismo politicamente qualificato: è più il riflesso delle posizioni critiche e decise del Papa, e anche un po’ il residuo di un distacco ottocentesco nei confronti dello Stato, del Governo. Un neutralismo, fra l’altro, che non voleva confondersi con quello socialista». Quando si avvicina la decisione sull’intervento, dall’Azione cattolica e dal cattolicesimo ufficiale, arriva per bocca del conte Giuseppe Dalla Torre la posizione: «Neutralità, ma condizionata nell’interesse dell’Italia». «E chi lo interpreta l’interesse dell’Italia? Il governo. Così quando il governo decide per l’intervento – dice Formigoni –, c’è un immediato allineamento delle posizioni. Filippo Meda, il rappresentante dei cosiddetti “cattolici deputati”, neutralista fino a poche ore prima della dichiarazione di guerra, appoggia nettamente il governo. E questo appoggio diventa molto forte dopo il maggio del 1915, quasi che i cattolici dovessero farsi perdonare la precedente timidezza verso lo Stato nazionale e dimostrare che la Chiesa è fedele alla Patria». Ma se Dalla Torre e la giunta direttiva dell’Azione Cattolica accentuano i toni, «è interessante notare come da parte del Papa ci sia la pressione a moderarli». Formigoni nell’Archivio di Stato Vaticano ha scovato interessanti carteggi in cui Benedetto XV invita alla calma, a non esagerate, a restare prudenti. Ai primi di agosto del 1915, la Giunta Direttiva dell’Ac prepara una mozione in cui si chiede che l’Italia, una volta raggiunti i «naturali confini», si impegnasse per una «nuova conformazione politica dell’Europa», ispirata «alla giusta valutazione dei diritti e delle aspirazioni nazionali e ai principi del cristianesimo». Il Papa personalmente blocca la proposta, impedendo l’uscita del testo. Ma ancora un anno dopo, nell’agosto del 1916 l’Unione popolare prepara un telegramma di plauso a Cadorna – dopo la conquista di Gorizia – che afferma: «eleva grato l’animo a Dio che ha concesso al valore dell’esercito e al senno dei capitani un pegno prezioso di immancabile vittoria finale e di pace giusta e gloriosa». La risposta è inequivocabile: «Si biasimi vivamente l’autore di questo telegramma e se ne proibisca la pubblicazione Benedictus PP XV». Il Papa vigila perché non si esageri e dà l’indicazione – evidenzia ancora Formigoni – di evitare la benedizione di bandiere, la recita di preghiere per la vittoria, ma per la pace, e fare tutto il possibile per non sacralizzare la guerra. Una prudenza in cui maturerà poi la dura Lettera ai capi dei popoli belligeranti del 1° agosto del 1917 contro l’«inutile strage». La Grande Guerra di don Mazzolari, arriverà tardi. Quando aveva fatto il servizio di leva, era stato inserito nella terza categoria, quella di chi veniva esentato. Ma richiamato per la guerra, risulta idoneo e lo arruolano. Con il dicembre del 1915 viene mandato a Genova, nel servizio di sanità. Poi nuovamente a Cremona. In tutto il Nord Italia molte scuole pubbliche e i seminari vennero adattati a strutture di accoglienza o ad ospedali. Ironia della sorte, il prete interventista che voleva servire la patria si ritrova nello stesso seminario dove insegnava, trasformato in reparto sanitario. «Ci ho rimorso, se ci penso», scrive all’amico don Guido Astori, il 12 maggio del 1916. «Pochi ammalati, giornate lunghe e allora in questo contesto comincia a tempestare le autorità per andare al fronte», spiega Vecchio. Solo nella primavera del 1918, ormai al termine del conflitto, lo nominano cappellano militare e sarà spedito finalmente sul fronte francese insieme alle nostre truppe ausiliarie. «In realtà resterà nelle seconda linea, lontano dal fronte – precisa lo storico –. In Francia vede la fine della guerra e torna in Italia nel febbraio del 1919. La sua attività più intensa da cappellano militare avviene dopo la fine del conflitto». Nonostante l’avesse chiesto, gli fu negato il congedo: viene inviato in Veneto, a San Donà di Piave, per assistere i soldati che stanno cominciando a recuperare i corpi. Aiutato dai soldati americani apre una casa del soldato e cerca di “curarli” culturalmente e spiritualmente. Nella seconda metà del 1919 sarà dirottato a Tolmino e nell’alta valle dell’Isonzo, non distante da Caporetto, per un lungo lavoro di recupero e identificazione delle salme. «È in questi luoghi che tocca con mano la tragedia della guerra, che lo aveva già segnato con la morte del fratello Peppino nel novembre del 1915 sul Sabotino. Nel 1920 sarà in Polonia: sei mesi nell’Alta Slesia, in una zona contesa fra polacchi e tedeschi dove furono inviati i soldati italiani a proteggere i deboli. Raccolse ancora morti e cadaveri. E vide la povertà nel cuore di Vienna, mentre l’attraversava». Lì si formarono le radici del suo successivo pacifismo: «Vogliamo l’amore fra i popoli, non l’odio: la pace nella giustizia, non la guerra. Vogliamo, in una parola, ritornare fratelli».