Società. Max Kennedy: «Il mare non è infinito. Impariamo dai nostri figli a salvarlo»
La plastica dispersa nel mare ha raggiunto livelli allarmanti
Il mare è vivo e vegeto: a dispetto di invasione di plastiche, inquinamento antropogenico, riscaldamento globale, l’immensa distesa cristallina continua a brillare delle infinite sfumature delle specie che lo popolano. E continua a nutrirci: di cibo e di cultura. A rigenerare il pianeta. E a rinnovarlo: il mare è infatti la più grande fonte di ispirazione e innovazione, e alla sua dimensione scientifica e globale è dedicata la seconda edizione del premio Costa Smeralda, che si terrà dal 26 al 28 aprile a Porto Cervo. Narrativa e Saggistica, categorie tradizionalmente legate alla parola, non saranno le sole in concorso: dedicata ai progetti scientifici, concretamente ideati per "fare del bene" a questo insostituibile compagno di vita, la sezione Innovazione blu, voluta dalla Fondazione MedSea, intende «ricordare il mare come matrice comune della nostra civiltà».
L’ospite speciale del premio Costa Smeralda ha un cognome che non richiede presentazioni, una militanza storica a difesa di diritti sociali e ambiente, un libro – Sea change – su un viaggio, in barca a vela, da San Francisco a Washington. È il racconto autobiografico dell’avvocato Max Kennedy (nono figlio di Robert), che sbarcherà a Porto Cervo per il lancio europeo del suo “diario di bordo”. «Il mare è fonte di vita per tutti noi, lo viviamo quanto i pesci ed è importante quanto le comunità che abitiamo, anche se, troppo spesso, lo dimentichiamo» anticipa Kennedy da Los Angeles, dando subito la cifra di Sea change: non la narrazione di una traversata, e non solo di un’avventura ricca di dettagli nautici e umorismo, ma un atto di amore, un tributo del novello Ulisse a qualcosa che profondamente ci appartiene e cui apparteniamo, che è parte del nostro vissuto e che parla della nostra storia. E che il palcoscenico sia il Mare Egeo, Mediterraneo, l’oceano Atlantico o la baia di San Francisco poco conta: metafora di vita, in quanto tale, il Mare rimane sempre, come sempre l’uomo è eterno pellegrino tra le sue onde.
Cosa l’ha spinta a questa impresa, oltre alla passione?
«Ho sempre amato il mare, ma volevo riportare alla memoria un incredibile episodio della storia americana che ha visto protagonista un gruppo di famiglie unite alla ricerca della libertà, quando 77 schiavi afroamericani tentarono di fuggire alla schiavitù proprio su una barca a vela. A Washington abbiamo costruito, in loro memoria, un museo interattivo, perché i giovani possano sperimentare come ci si senta a contatto dell’oceano, in barca, soprattutto, se non hanno mai avuto l’opportunità di starci».
Lei, per mare, ha girovagato oltre un anno. Come si è preparato?
«Non molto bene [ride, ndr]. Ho navigato per tutta la vita, l’acqua è sempre stata una presenza costante: ho iniziato molto piccolo ad andare in barca con lo zio Ted [il senatore, ndr]. Le abilità che richiede un viaggio del genere si acquisiscono durante la 'rotta': meccanica, motoristica, carpenteria, le ho imparate durante la navigazione».
Non saranno mancati, oltre momenti emozionanti, passaggi difficili…
«A Maverick, a sud di San Francisco, dove di solito si tengono gare di surf, siamo stati colti da una tempesta anomala. Là fuori, abbiamo perso l’orizzonte della spiaggia, scorgevano solo scogliere, mentre il vento si alzava sempre più, fino a rovesciare la vela. Lo "sterzo" non ha retto, staccandosi dal timone: a quel punto, sono stato costretto a mandare mio figlio all’estremità del bompresso, a circa 15 piedi fuori dallo scafo. I cavalloni erano altissimi e nei 10 secondi in cui è sparito sott’acqua, il sangue ci è gelato nelle vene».
Il mare è anche pericolo e pretende rispetto. Nel corso del tempo, è cambiato il suo rapporto con questo spazio?
«Lo rispetto ancora di più, anche perché sono rimasto sconvolto dalla quantità di plastiche che soffocano gli oceani. Ovunque, anche molto lontano da riva. Ho trovato anche molte trappole illegali. Ho preso coscienza della "finitezza" dell’oceano: è più contenuto e vulnerabile di quanto siamo soliti pensarlo. È una risorsa limitata che rischiamo di perdere, ma che, anche tuttora, distruggiamo».
Ritiene inadeguate le strategie di difesa ambientale adottate dalle amministrazioni del suo paese e in Europa?
«Non è stato colto il carattere emergenziale del tema ecologico. Gli Stati Uniti, oltre ad aderire agli accordi di Parigi, devono passare alla “Via ambientale” (“The green new deal”). Tutta l’impostazione americana, e probabilmente anche europea, nei confronti delle politiche in materia, è – nel suo complesso – obsoleta: è urgente mettere al bando carbone e plastiche. In caso contrario, il prezzo che pagheremo, e che pagheranno i paesi in via di sviluppo e le parte più debole della popolazione, sarà insostenibile, in termini di cambiamento climatico, urbano e sanitario. Ne usciremo globalmente avvelenati. Solo qualche giorno fa è stata rinvenuta una balena con oltre 137 kg di plastica nello stomaco!»
Ma in concreto siamo pronti a modificare l’attuale stile di vita? Siamo disposti a rinunciare a qualcosa in nome dell’ambiente?
«Molti giovani penso lo siano, ma non la maggior parte di noi e le leadership mondiali».
Ha mai solcato altri mari? Ad esempio, il Mediterraneo?
«Ho percorso tutta la vostra penisola: dall’Adriatico, vicino alle coste slovene, al Tirreno, a ridosso di Amalfi, e poi la Sardegna. E, ancora dall’Adriatico, verso Montenegro, Croazia, Grecia, Turchia».
Le stime prevedono un incremento di rifugiati e migranti dovuto a ragioni ambientali e dall’Africa conflitti e cambiamenti climatici aumenteranno il flusso. Esodi inevitabili, dolorosi, dagli esiti talvolta destabilizzanti.
«Tutti hanno gli stessi diritti umani e ognuno di noi ha l’imperativo morale di soccorrere un uomo in difficoltà. Penso al mio paese: gli Usa hanno accolto pochissimi rifugiati siriani, pur avendo le maggiori responsabilità delle condizioni attuali. Non avremmo dovuto caricare l’Europa del peso della gestione dei rifugiati, ma accoglierne la gran parte. A lungo termine, unica soluzione alla crisi sarà sostenere il processo di democratizzazione e apertura della Siria. Questa è la sola strada percorribile per arginare i flussi migratori. Anche dall’Africa. Fame, mancanza di sicurezza e servizi, tasso di criminalità, sfruttamento… Europa e Stati Uniti non potranno mai dare una risposta a tutto questo: occorre un fronte globale e compatto e, di certo, i rifugiati non hanno alcuna colpa».
Quale è l’eredità Kennedy in termini “ambientali”?
«Zio John, il presidente, combatté, durante il secondo conflitto mondiale in marina e credo non esista un Kennedy che non abbia vissuto in stretta connessione con l’oceano. Uno stile di vita e un modo di sentire che per me è stato un imprinting indelebile. Penso sarebbe fondamentale alla crescita di ogni individuo viverlo per un po’: aiuterebbe a trovare la propria strada».