La trasposizione mitica dell’Irlanda in lotta per l’indipendenza all’inizio del ’900 ebbe le sembianze di Maud Gonne, una donna dal carisma straordinario, talmente bella e inarrivabile da tormentare William Butler Yeats per tutta la vita, determinando il senso stesso della sua opera. «La sua bellezza apparteneva a quadri, a poesie, a un passato leggendario» scrisse colui che sarebbe diventato uno dei più grandi poeti contemporanei in lingua inglese. Aveva solo ventitre anni quando incontrò la donna che non corrispose mai il suo amore, e che respingendo tutte le sue proposte di matrimonio avrebbe colmato di tristezza il resto dei suoi giorni. Mentre si consumava il crepuscolo della Dublino coloniale, tra i due nacque un’amicizia tormentata e un’unione spirituale che assunse i contorni di un lungo sodalizio artistico e politico. Maud Gonne, dedicatasi fin da giovanissima alla causa irlandese, divenne per Yeats una sorta di musa "guerriera", molto più simile a Giovanna d’Arco che alla Beatrice dantesca. Il grande poeta le dedicò innumerevoli poesie scoprendo grazie a lei le sue potenzialità di drammaturgo e non mancando di farsi coinvolgere anche in parecchie delle sue attività politiche. Irredentista e femminista
ante litteram ma anche attrice teatrale di successo, giornalista e oratrice eccezionale, Gonne era già agli albori del XX secolo una figura di spicco tra i nazionalisti irlandesi, la fondatrice del movimento rivoluzionario femminile
Inghinidhe na hÉireann ("Figlie di Erin") e aveva fatto della lotta per l’indipendenza irlandese il baricentro della sua intera esistenza. «Che cosa avrebbe potuto pacificarla – si chiese Yeats – lei che ha un animo reso dalla nobiltà semplice come una fiamma, e una bellezza simile a un arco teso, di un genere che non è naturale in un’età come questa, alta solitaria e molto austera?». La sua autobiografia, data alle stampe nel 1938 e ormai diventata una pietra miliare della storiografia irlandese, è ora uscita per la prima volta anche in italiano (
Al servizio della regina. Autobiografia di una rivoluzionaria irlandese, Iacobelli editore). Fin dalle sue pagine iniziali Maud Gonne rivela che la regina cui fa riferimento il titolo del libro non è Vittoria – «la regina della Grande Carestia» – bensì Cathleen Nì Houlihan, la personificazione allegorica della nazione irlandese. E narra di quella voce che le disse: «tu sei una di quelle piccole pietre su cui i piedi della regina si sono posati nel suo cammino verso la libertà». Sul mito dell’antica regina d’Irlanda Yeats scrisse una delle sue commedie teatrali di maggior successo e fu la stessa Gonne a portarla in scena per la prima volta nel 1902, in una sintesi quasi perfetta di arte, mito e nazionalismo. Il successo dell’opera l’avrebbe spinta a identificarsi completamente nel personaggio e a rifiutare tutti gli altri ruoli teatrali che le vennero offerti, ritenendo che la causa indipendentista avrebbe tratto beneficio dalla sua rappresentazione. Ma se il grande critico irlandese Austin Clarke parlò di lei come della «regina senza corona dell’isola di smeraldo» non fu solo per il suo portamento, la sua grazia e la sua bellezza. A renderla una figura memorabile furono infatti il coraggio e l’anticonformismo mostrati per l’intero corso della sua vita. In prima linea a difesa dei più deboli, al fianco dei contadini soggiogati dai padroni del grande latifondo, sostenitrice della lotta armata e dell’emancipazione femminile ma anche fondatrice – insieme allo stesso Yeats e a lady Gregory – dell’Abbey Theatre, il primo teatro nazionale di Dublino. Questa autobiografia racconta alcune delle fasi cruciali della lotta per l’indipendenza irlandese e della sua rinascita culturale dopo i secoli bui dell’oppressione coloniale britannica attraverso lo sguardo e il cuore di una donna che passava «come una nube ardente» dai salotti ai bassifondi, dalle carceri ai comizi elettorali. Immaginifiche e memorabili le pagine conclusive che descrivono la sua adesione al cattolicesimo, lei ch’era figlia della borghesia angloirlandese protestante. «L’atto di abiura nei confronti dell’anglicanesimo –spiegò in una lettera a Yeats – deriva dal mio odio profondo per l’Impero britannico, il simbolo materiale di Satana sulla Terra».