Cina. La terra di nessuno di Matteo Ricci
L’articolo di Gianni Criveller che anticipiamo esce sul prossimo numero della rivista del Pime “Mondo e Missione”, e indaga lo stato d’animo con cui il gesuita visse la sua missione di evangelizzazione della Cina. Lo stesso articolo, in una versione più ampia, è uscito sulla rivista “Pime World” in America e ha ricevuto il primo premio della Catholic Press Association. Anche la capitale economica della Cina, Shanghai, celebra il grande missionario gesuita. Un busto di Matteo Ricci, infatti, è stato realizzato dall’artista Emanuele Barsanti e verrà presto collocato nel giardino-mausoleo di Xu Guangqi, poco distante dalla cattedrale di Shanghai intitolata a Sant’Ignazio. Il dono è frutto di una collaborazione fra la Fondazione Matteo Ricci di Macerata e l’Ufficio culturale di Shanghai.
Nel giugno del 1595, nel pieno della sua missione in Cina, Matteo Ricci collezionò una serie incredibile e dolorosa di fallimenti, al punto di sprofondare in uno stato di malinconia. Ebbe un sogno, l’unico che ci sia stato raccontato dai missionari in 200 anni di presenza in Cina. Nel sogno, Gesù consolava Matteo, promettendogli di condurlo a Pechino. Matteo ne scrisse subito a Gerolamo Costa, un amico d’infanzia. Il sogno è senz’altro avvenuto, poiché Ricci non poteva in nessun modo immaginare, quando ne scrisse, che la predizione si sarebbe un giorno realizzata per davvero. E ciò avvenne solo sei anni dopo, il 24 gennaio 1601. Lo ribadisco: andava tutto per il verso sbagliato, e in nessun modo Matteo poteva prevedere il successo della sua impresa. L’ascesa a Pechino era un obiettivo che avrebbe scoraggiato chiunque, in un Paese chiuso ermeticamente agli stranieri, con sfide culturali e di adattamento mai sperimentate prima. Ma Ricci non era una persona qualsiasi. Era un uomo straordinario, animato da intelligenza e caparbietà non comuni. In soli 18 anni, tra difficoltà, insuccessi e opposizioni di ogni genere, introdusse la fede cristiana in Cina mediante la via dell’amicizia, del dialogo culturale e scientifico. Ricci è uno degli uomini migliori nella storia dell’umanità, il primo che ha unito nel segno dell’amicizia due tra le civilizzazioni più celebrate della storia: l’umanesimo rinascimentale europeo e la civiltà cinese dei Ming. Eppure, un uomo tanto geniale confessa più volte di soffrire di malinconia. Nel 1580 ne scrisse a Ludovico Maselli, che aveva avuto come superiore a Roma: «Non mi causa tanta tristezza, così la voglio chiamare, il star lontano di miei parenti, sebbene io son molto carnale, quanto di star lontano da Voi, che amo più che mio padre. Non so che imaginatione mi viene alle volte e non so come mi causa una certa sorte di melanconia, che mi par che è buona, e havrei scrupolo di non haverla». Che la melanconia gli sembri una cosa buona sconcerta non poco. Nella tradizione cattolica la malinconia era associata all’accidia, uno dei sette vizi capitali. La malinconia nasce in Grecia come la malattia umorale delle persone deboli e tristi. Aristotele è il primo, invece, che si chiede per quale ragione gli uomini eccezionali siano malinconici, affermando così un legame tra genialità e malinconia. Studiando i sogni, il filosofo greco fa derivare la melanconia dall’incontinenza della facoltà immaginativa e, dopo un complesso ragionamento, ne deriva che «vi sono uomini melanconici i cui sogni sono veri». L’Umanesimo e il Rinascimento ripropongono il pensiero aristotelico circa la malinconia, associandola allo spirito degli artisti e all’immaginazione. I malinconici infatti sono spiriti geniali che immaginano e sognano un mondo diverso. Il melanconico conosce la labilità del mondo presente, e se ne distanzia. Egli percepisce l’oscurità e la fugacità della condizione umana, e inventa immagini visuali e poetiche per rappresentare un mondo altro. Egli si dispera persino, e trova rifugio nell’immaginare e sognare mondi altri, possibili e migliori. Ma torniamo al nostro missionario Matteo Ricci. Ho scoperto un singolare legame letterario tra Ricci e gli studi umanistici sulla malinconia. Nel 1621 viene pubblicato a Londra Anatomia della malinconia, un trattato fondamentale nella storia degli studi sul tema. L’autore, Robert Burton, cita Matteo Ricci – il quale era morto nella lontana Pechino solo undici anni prima – per ben 16 volte. Matteo Ricci si era formato nell’esercizio dell’immaginazione, fondamentale nella formazione gesuitica, centrata sulla fruizione contemplativa delle immagini per l’esercizio immaginativo della composizione di luogo. Essa è la pratica di entrare, grazie alla fruizione di immagini che narrano la storia dei Vangeli, in uno spazio immaginativo che conduce alla contemplazione. Le immagini infatti, creando mondi immaginativi nuovi, hanno il potere di condurre la persona che immagina fuori dal proprio mondo, rendendo possibile un’uscita da sé e un incontro con gli altri e con l’Altro. Non a caso, l’adozione di “immagini sacre” e la confidenza nel loro potere taumaturgico, la stampa e la diffusione di immagini che rappresentavano la vita di Gesù, le narrazioni evangeliche e la fiducia nel loro potere immaginifico, evocativo e persuasivo furono in assoluto una delle più innovative caratteristiche dell’attività missionaria di Ricci e dei gesuiti in Cina. Romano Guardini, in Ritratto della malinconia (1928), descrive in modo suggestivo la malinconia come vita tra i confini: «Ci sono quelli che sperimentano profondamente il mistero di una vita di confine. Non stanno mai decisamente o di qua o di là. Vivono nella terra di nessuno. Sperimentano l’inquietudine che passa dall’una all’altra parte. La malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo. Il significato dell’uomo sta nell’essere un confine vivente, nel prendere sopra di sé questa vita di confine». Credo che molti missionari, come avvenne per Ricci, possano riconoscersi in questa “sorte di malinconia”, in quanto attraversano molti confini, fino a diventare loro stessi confini viventi.