Ormai è una pagina di “preistoria” materana quella frase che
Giovanni Ricciardi, professione guida turistica, si sentiva ripetere nel 1992 quando accompagnava i primi gruppi di visitatori fra i Sassi. «
Da ddo’ la pigghiet chiss giargianis?», chiedevano le donne ai crocicchi o il barista. «Già, mi dicevano: “Dove li hai presi questi germanici?”. In realtà erano giapponesi. Trascorrevano le vacanze nel Salento e per mezza giornata li convincevamo a fare tappa qua. Perché vent’anni fa eravamo una terra pressoché sconosciuta. E noi guide venivamo viste in paese come accattoni delle mance dei turisti». Oggi la Matera che ambisce a diventare Capitale europea della cultura nel 2019 fa pagare anche mille euro per una notte nei Sassi. E il suo quotidiano è segnato dal cineturismo, dai venditori nelle grotte, dagli artigiani del tufo, dagli americani stregati dal fascino arcaico. Per la prima volta, lo scorso anno, è stato superato il traguardo dei 300mila visitatori in 12 mesi. Mica male per una città di 60mila abitanti dove c’è la stazione ma non arrivano i treni delle Fs e l’aeroporto più vicino si trova a Bari, in un’altra regione. «Potevamo accontentarci di questa terza rivoluzione. Invece abbiamo scelto di rilanciare: con la corsa europea», spiega il sindaco
Salvatore Adduce. Le altre due rivoluzioni, di cui parla l’ex parlamentare con un passato nel Pci e un presente nel Pd, raccontano la sconfitta e poi la rinascita della città. La prima è quella scaturita dalla legge del 1952 che sancisce la «vergogna nazionale» della vita nelle grotte, piegata dalla miseria, dalla promiscuità con gli animali, dall’alta mortalità infantile, e impone l’esodo dei 17mila “figli dei Sassi”. La seconda ha il volto di una battaglia civile intrapresa negli anni Ottanta dai giovani del circolo culturale “La scaletta” che apre le porte al ritorno nei Sassi. Adesso vivono in duemila dentro quegli anfratti, testimoni della millenaria civiltà rupestre che l’Unesco ha proclamato patrimonio dell’umanità. «Le vicende dell’ultimo mezzo secolo – afferma il sindaco – dimostrano che anche il luogo meno adatto a capitalizzare saperi e conoscenze può rovesciare la sua condizione di arretratezza investendo sulla cultura». Dal suo ufficio, all’ultimo piano di un grattacielo che è il municipio, il cuore antico di Matera somiglia a un labirinto che il sole colora di bianco. Il progetto di candidatura presenta la città affidandosi all’ossimoro “Futuro remoto”. Chi ci sbarca da visitatore è di solito accompagnato da immagini di maniera. Ieri erano quelle dell’“inferno” narrato da Carlo Levi in
Cristo si è fermato a Eboli. Oggi sono tratte dai film:
The passion di Mel Gibson o
Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo. «Visioni stereotipate che non ci rappresentano », avverte Rita, anche lei guida turistica. Un po’ come è accaduto con la riappropriazione dei Sassi, l’ambizione materana di conquistare la ribalta europea è partita da un gruppo di ragazzi. C’era anche Giovanni in quell’avanguardia che aveva lanciato l’associazione “Matera 2019” quando venne comunicato che sarebbe toccato all’Italia ospitare la Capitale della cultura. Era il 2008. «Oggi – prosegue il sindaco – la candidatura è una scommessa per tutta la Lucania ed è sostenuta persino da Potenza. Sa, riuscire a mettere insieme Matera e Potenza è come immaginare che Pisa e Livorno si alleino». Epperò il sogno internazionale costa: la Regione Basilicata ha già investito 3 milioni di euro e il Comune 300mila. Un record rispetto alle cinque città rivali. E una parte dei fondi si è tradotta in una martellante campagna pubblicitaria. Ma almeno la competizione ha galvanizzato la città. Alle terrazze delle case – persino in periferia – sventolano le bandiere di “Matera 2019”. Il cameriere serve ai tavoli con la spilla della candidatura. I negozi mettono in bella vista il logo del progetto. E le chiese rupestri diventate musei d’arte contemporanea danno il benvenuto richiamando l’impresa.
«Il nostro popolo ha un approccio riflessivo, accogliente, fortemente umano. Ma ha bisogno di quel volano che dia la spinta un po’ più fattiva, come è richiesto dai tempi che viviamo», spiega l’arcivescovo di Matera-Irsina,