Balcani. Srebrenica: verso un nuovo negazionismo?
Il cimitero di Srebrenica, con le stele funerarie delle vittime dei massacri del 1995 (Ansa)
Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se poco dopo la chiusura del processo di Norimberga contro i criminali nazisti le istituzioni tedesche avessero promosso una lettura negazionista della Shoah. Se avessero creato commissioni di “esperti” decisi a ridimensionare, a ritrattare e, sostanzialmente, a rigettare non solo le sentenze di condanna a carico dei criminali nazisti ma anche a rivalutarne l’operato fino a definirli «difensori della patria». Inverosimile, assurdo. Ma è esattamente quanto sta accadendo in Bosnia, dove a circa un quarto di secolo dal feroce conflitto della prima metà degli anni ’90, l’offensiva revisionista serba non pare arrestarsi.
Lo scontro sul passato inquina da anni la vita quotidiana in una terra che continua a essere fatalmente divisa, in preda ai nazionalismi che soffiano sul fuoco dell’intolleranza. La guerra per la verità, nel cuore ferito dei Balcani, si combatte sui mezzi d’informazione, nelle aule scolastiche, nelle chiese e nelle moschee. Contestando apertamente le sentenze del tribunale internazionale dell’Aja e mettendo in discussione fatti acclarati e sostenuti da prove inoppugnabili.
Eppure, a parte l’ubicazione di nuove fosse comuni, ben poco resta ancora da scoprire su quella mattanza di fine ’900 di cui conosciamo ormai quasi tutto: il numero delle vittime, la natura sistematica dei massacri e l’identità dei carnefici che presero parte allo sforzo omicida.
Ma proprio in queste ultime settimane i tentativi di appropriarsi della narrazione storica sul recente passato hanno subito una decisa accelerazione. All'inizio di febbraio la Republika Srpska (l’entità politica a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina) ha istituito due commissioni internazionali incaricate di stabilire i crimini commessi contro la popolazione serba a Srebrenica e a Sarajevo. È stato chiamato a farne parte un gruppo di studiosi e giuristi provenienti da Austria, Australia, Cina, Germania, Nigeria e Stati Uniti. Entrambi gli organismi, che hanno già cominciato a riunirsi, sono presieduti da due storici israeliani.
A capo della commissione su Srebrenica c’è Gideon Greif, docente di storia ebraica all’Università del Texas, mentre Raphael Israeli, professore emerito di storia del Medio Oriente all’Università ebraica di Gerusalemme, guida quella su Sarajevo. «Si tratta di specialisti incaricati di stabilire finalmente la verità storica, che lavoreranno senza alcuna pressione o condizionamento esterno», ha spiegato Milorad Kojic, direttore del Centro per le ricerche di guerra finanziato dalle istituzioni della Republika Srpska.
Rassicurazioni che suonano quantomeno risibili, considerando che l’attuale presidente della RS, Milorad Dodik, ha costruito la sua intera carriera politica sulla negazione del genocidio di Srebrenica e in più occasioni non ha esitato a definire i massacri del luglio 1995 «la più grande farsa del Ventesimo secolo». Nel 2017, all’indomani della condanna all’ergastolo di Ratko Mladic, ribadì che l’ex generale riconosciuto colpevole del genocidio dalla giustizia internazionale era «un eroe del popolo serbo» e che i crimini commessi a Srebrenica erano stati amplificati allo scopo di demonizzare i serbi.
La creazione delle due commissioni è dunque tutt’altro che un fulmine a ciel sereno, e prosegue nel solco tracciato dal parlamento serbo-bosniaco nell’agosto scorso con l’annullamento del Rapporto su Srebrenica del 2004. Quel rapporto rappresentava il primo riconoscimento ufficiale da parte dei serbo-bosniaci della portata del massacro, in cui ottomila musulmani bosniaci furono trucidati nella più grave strage compiuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.
A Sarajevo sia l’Alto Rappresentante dell’ONU Valentin Inzko che gran parte dei partiti politici e delle associazioni delle vittime hanno condannato duramente l’iniziativa delle autorità serbobosniache, accusandole di voler minimizzare i crimini di guerra già accertati dalle sentenze del Tribunale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia e della Corte Internazionale di Giustizia. I chiari intenti revisionisti delle due commissioni sono stati anche sottolineati da un gruppo di studiosi, secondo i quali non esistono elementi nuovi in grado di modificare la giurisprudenza e le due commissioni – composte da figure perlopiù estranee all’area balcanica – non sono in grado di fornire alcun contributo significativo all’interpretazione del passato.
Eric Gordy, politologo e slavista dell’University College di Londra, è il primo firmatario di una lettera aperta sottoscritta da trentuno accademici internazionali esperti dell’area ex-jugoslava che definisce le due commissioni «parte di uno schema di deliberata revisione di verità già accertate» e parla di «una strategia per trasformare le sofferenze legittime in uno strumento per banalizzare le sofferenze subite dagli altri» in un «contesto di appropriazione strumentale della storia».
La lettera non cita Greif e Israeli, i due storici israeliani che presiedono le due commissioni e rischiano di legittimare il revisionismo nei Balcani. La loro presenza nei due controversi organismi appare oltremodo polemica ma non rappresenta una novità. In anni recenti altri studiosi provenienti da Israele hanno già espresso dubbi sulla natura genocidaria dei fatti di Srebrenica. Yehuda Bauer, storico dell’Olocausto all’università ebraica di Gerusalemme, affermò che Srebrenica era stato un eccidio di massa ma non un genocidio perché non esistevano prove che le milizie serbo-bosniache intendessero sterminare i musulmani di Bosnia. A scatenare molte polemiche, alcuni anni fa, furono poi le parole pronunciate da Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. «Non nego che a Srebrenica i serbi abbiano ucciso i musulmani», disse il numero uno dell’organizzazione fondata dal celebre cacciatore di criminali nazisti Simon Wiesenthal. «Ma penso che la decisione di definirlo un genocidio sia stata presa per ragioni politiche, perché i serbi risparmiarono le donne e i bambini».