«Nel ringraziare chi mi ha portato al successo, lasciatemi dire un solo nome, quello di un’attrice che è anche mia moglie e... ti prego, mia cara Giulietta, smetti di piangere!». Quell’amorevole «stop crying» pronunciato con voce commossa da Fellini al Dorothy Chandler Pavilion di Hollywood tenendo in pugno la statuetta d’oro, è entrato nella storia del cinema. E come poteva non scoppiare in lacrime Giulietta Masina in platea, vedendo Federico osannato dal mondo per l’opera del suo genio? Un successo di cui anche lei, in buona parte, fu artefice. Era il 1993 e l’Academy Awards decise di assegnare al cineasta di Rimini l’Oscar alla carriera, il quinto del suo palmarés.
La strada (1954) e
Le notti di Cabiria (1957), i primi due film felliniani a meritare il premio (rispettivamente nel ’57 e nel ’58), trovarono nella Masina una protagonista perfetta, una Gelsomina dolce e sbarazzina e una Cabiria ingenua e sensibile. Caratteri e sentimenti che traspaiono dalle immagini di scena esposte fino al 1° novembre a San Marino in occasione dei 20 anni dalla morte dell’attrice e dei 60 dall’uscita del capolavoro
La strada: la mostra, curata da Simone Casavecchia e Fiammetta Terlizzi, è allestita nell’ambito del San Marino International Film Festival che si svolge in questi giorni nella Repubblica del Titano: in programma, domani sera, un incontro con Ermanno Olmi a cui seguirà la proiezione del suo film-inchiesta
Come voglio che sia il mio domani, sulla realtà giovanile in Italia. Nelle quattro sezioni in cui si articola la mostra
Giulietta Masina, l’Oscar di Federico Fellini si raccontano i sette film interpretati dal-l’artista emiliana sotto la direzione del marito, ma anche
Fortunella, del 1958, di Eduardo De Filippo, film barocco e picaresco che Fellini stesso sceneggiò e il cui personaggio principale sembra proprio discendere dagli altri due, malinconici e tenerissimi, che diedero una popolarità mondiale alla Masina. Occhi languidi da bambina ferita, movimenti da clown, leggerezza e spontaneità interpretativa che sapeva esprimere nei registri drammatici più profondi e in quelli lievi e brillanti, come in
Luci del varietà, del 1950, diretto dal marito insieme con Alberto Lattuada: Giulietta Masina era un talento puro e non è stata solo la musa di Fellini: «no, lui è un artista, è come il cielo e il mare, cambia sempre» rispondeva a chi le chiedeva se fosse il suo «modello permanente di attrice». Nata il 22 febbraio del 1921 a San Giorgio di Piano (Bologna), Giulietta era la prima di quattro figli. Il papà, Gaetano Masina, era un violinista e la mamma, Flavia Pasqualin, una maestra. Ad appena quattro anni si trasferisce dalla zia a Roma, città dove troverà il modo di realizzare la sua vocazione di attrice. A 9 anni esordisce sul palcoscenico del Collegio delle Canossiane eseguendo un brano cantato a filastrocche. Dalle Orsoline (qui frequentava le scuole superiori) interpreta con abiti maschili l’operetta
Salvatorello, ispirata alla vita dello scultore Salvator Rosa. All’inizio degli anni ’40 si iscrive alla Facoltà di Lettere della Sapienza e sostiene provini al teatro Ateneo. Tagore e Pirandello sono tra i primi autori con cui si cimenta, poi Klinger, Kafka, Brancati. Finché Silvio D’Amico le offre di entrare all’Accademia di Arte Drammatica. Ma lei rinuncia per continuare il lavoro con il Teatro Universitario. In quel periodo Giulietta andava spesso al cinema e amava identificarsi con le dive hollywoodiane romantiche e glamour: le foto che si possono ammirare alla mostra ne mettono in evidenza lo sguardo luminoso, il viso dolce, un portamento da vamp. Forse è una di queste immagini che inviò a Federico, conosciuto nel 1943 nella sede dell’Eiar: con una scusa il giovanotto la invitò a pranzo. I due si innamorarono subito. Si sposarono pochi mesi dopo il primo incontro, il 30 ottobre del ’43, rimasero insieme per cinquant’anni. Fu una moglie amorosa e molto paziente. Come donna venne segnata profondamente dalla perdita di due figli, il primo al quarto mese di gravidanza, il secondo, Federichino, dopo soli quindici giorni di vita a causa di una broncopolmonite. Gli anni successivi li dedica tutti al cinema: fa una piccola parte in
Paisà di Rossellini poi è protagonista in
Senza pietà di Lattuada, del 1948. Ma è con Federico che raggiunge l’apice del successo: ne
Lo sceicco bianco, del 1952, interpreta per la prima volta il personaggio che riprenderà ne
Le notti di Cabiria. Con
La strada e
Il bidone, contribuisce magnificamente all’idea di redenzione spirituale degli emarginati che Fellini voleva esprimere nella sua fase postneorealista. In
Nella città l’inferno (1958) di Renato Castellani, recita con Anna Magnani: gli screzi tra le due dive sul set ebbero come risultato interpretazioni da brivido. Federico la dirige in
Giulietta degli spiriti e, nel 1985, in
Ginger e Fred dove fa la ballerina con Mastroianni. Nel ’76 in televisione è
Camilla diretta da Sandro Bolchi. L’ultimo film risale al 1991,
Un giorno forse, di Jean-Louis Bertuccelli. Il 31 ottobre ’93 Fellini si spegne a causa di un ictus e cinque mesi dopo muore a 73 anni anche Giulietta. Sono sepolti nel cimitero di Rimini accanto al loro Federichino.